giovedì 12 giugno 2014

Con la forza dei piccoli

di Marco Pappalardo | 12 giugno 2014
Un'immagine inconsueta di un vescovo in altalena spinto da un bambino. Parabola di una Chiesa fedele a un invito molto preciso di Gesù


Un'immagine che vale più di tante parole: un bambino divertito spinge un vescovo sull'altalena!

Una foto che viene da Catania, inedita ed inusuale, rubata e per nulla cercata, che fa sorridere e dà un senso di leggerezza.

Qualcuno potrà pensare che la Chiesa e i suoi pastori stanno proprio uscendo fuori dalle righe. No, è solo bello credere ad un cambio di prospettiva, anzi ad un ritorno di prospettiva. Cioè a quella prospettiva evangelica del «chi è dunque il più grande nel regno dei cieli? Ed egli, chiamato a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli. E chiunque riceve un bambino come questo nel nome mio, riceve me». (Mt. 18,1-5)

Così la Chiesa si muove, cammina, prende il volo, lasciandosi spingere e portare in alto dalla forza e dalla meraviglia dei piccoli!


L'Autore: Marco Pappalardo

Marco Pappalardo, classe 1976, giornalista pubblicista di Catania e docente di Lettere. Collabora con Avvenire, con il quotidiano La Sicilia per il quale cura la rubrica "Diario di Prof", per il mensile Mondo Erre, per siti che si occupano del mondo adolescenziale, giovanile e della scuola. Già membro della Consulta Nazionale per la Pastorale Giovanile della CEI, è impegnato nella diocesi etnea in vario modo e da anni nel mondo dell'educazione attraverso l'oratorio; tra le esperienze di volontariato quotidiano, condiviso con colleghi, amici, alunni ed ex-alunni, ci anche sono la cura e il servizio agli immigrati, ai senza dimora e alle famiglie disagiate. Scrive per la Libreria Editrice Vaticana, la Elledici, l'Effatà, Il pozzo di Giacobbe, per la San Paolo con cui ha pubblicato un nuovo libro dal titolo "Nelle Terre dell'Educazione".

Fonte: vinonuovo

mercoledì 11 giugno 2014

Cosa significa credere in Dio?

Fede, anche sotto il profilo umano, equivale a fidarsi di quanto ci viene comunicato




Quesito
La saluto. La parola fede, che cosa significa nei dettagli più importanti?
La saluto e la ringrazio.
Le auguro pace e gioia.
Stefano


Risposta del sacerdote
Caro Stefano,
1. fede, anche sotto il profilo umano, equivale a 
fidarsi di quanto ci viene comunicato.
La fede si distingue dall’evidenza. Quando le cose sono evidenti sono chiare da se stesse e si impongono alla nostra intelligenza. Nella fede invece al posto della chiarezza c’è la fiducia nella persona alla quale ci rivolgiamo. Quando, ad esempio, tu vai dal medico e ti viene ordinato un farmaco, tu non hai l’evidenza di che cosa si tratti. Al posto dell’evidenza, ti fidi della competenza del medico. E poi ti accorgi che non hai mal riposto la tua fiducia.
2. Così avviene anche per la fede in Dio. Ci fidiamo di Lui, della sua sapienza e della sua bontà.
3. Ma per la fede in Dio c’è qualcosa di nuovo, perché le verità che Egli ci comunica non sono verità immediatamente verificabili. Inoltre sono verità di ordine soprannaturale che la nostra intelligenza con le sue sole forze non può raggiungere. La nostra mente riflette su queste verità, cerca di comprenderle e trova che non c’è nulla che sia contro la ragione. Anzi si accorge che è perfettamente ragionevole aderire a quanto Dio ci comunica. Proprio perché sono di ordine soprannaturale, per aderirvi è necessario ricevere una mozione da parte di Dio perché ci aiuti a credere a quanto Egli ci rivela. Per questo la fede è dono di Dio. Va detto tra parentesi che questo dono Dio lo offre a tutti.
4. Inoltre avere fede non significa solo fidarsi, ma anche obbedire. Se tu vai dal medico e questi ti dice di prendere il farmaco secondo un  determinato dosaggio, devi obbedirgli. Diversamente non puoi godere del beneficio promesso. Questa obbedienza non è cieca, perché tu conosci e hai sperimentato la sua competenza. Così analogamente anche per la fede in Dio. Non c’è vera fede in Dio se non c’è obbedienza a quanto ci comanda. Se manca l’obbedienza, non ci si inoltra nell’esperienza che Dio promette. Abramo si è fidato di Dio e gli ha obbedito mettendosi subito in cammino. E proprio perché si è messo in cammino ha potuto sperimentare la fedeltà di Dio alle sue promesse. Se manca l’obbedienza la nostra fede si riduce semplicemente a qualche nozione su Dio. Ma una simile fede l’hanno anche i demoni, come dice San Giacomo (Gc 2,19). Non è una fede che salva perché non dà inizio a nessuna esperienza interiore nuova. È pura conoscenza.
5. Infine aver fede significa abbandonarsi nelle mani di Dio, confidando in Lui, nella bontà della sua legge e dei suoi interventi. Questo abbandono fiducioso talvolta lo attuiamo anche nei confronti del medico. Quando i farmaci non bastano, è necessario un intervento chirurgico e questo comporta non di rado l’anestesia totale. Nell’anestesia totale uno rinuncia perfino a vedere, a capire. Si lascia tagliuzzare dal medico come vuole. Ma si è consapevoli che tutto quello che il chirurgo farà, lo farà solo per portarci alla salute, per liberaci dal male. È un rimettersi nelle sue mani, nel senso pieno della parola. Così ugualmente la vita di fede comporta anche questo santo abbandono nelle mani del Signore, sapendo che ci conduce per vie che giovano alla nostra purificazione e alla nostra santificazione e alla nostra glorificazione.
6. Ecco, sostanzialmente la fede comporta questi tre aspetti: fidarsi, obbedire, abbandonarsi. Lo comporta la fede umana. Molto di più lo comporta la fede teologale, tendendo presente che in tutti questi passaggi Dio stesso ci illumina perché possiamo fidarci, ci dà forza perché possiamo obbedirgli e ci infonde un santo abbandono in Lui perché possiamo rimettere totalmente la nostra vita e le nostre vicende nelle sue mani.
Ti assicuro una preghiera perché quanto ho detto possa attuarsi perfettamente nella tua vita e tu possa giungere a dire insieme a San Paolo: “So a chi ho creduto” (2 Tm 1,12).
Ti saluto e ti benedico.
Padre Angelo

qui l'articolo originale
Fonte: Aleteia


Una struttura in grado di offrire un trattamento d’avanguardia nella cura dei tumori

Chiara Santomiero 



Un autentico gioiello della sanità, realizzato interamente con denaro pubblico per offrire ai pazienti cure avanzate: accade anche in Italia, a Trento, dove presto sarà operativo il primo Centro di protonterapia del nostro Paese. Una struttura all’avanguardia nella cura delle neoplasie come spiega ad Aleteia il primario dell’unità terapeutica di protonterapia, Maurizio Amichetti.

Cos’è la protonterapia?

Amichetti: Si caratterizza come un trattamento oncologico con radiazioni, nel caso specifico con l’uso di particelle cariche che sono i protoni e sono diverse dalla normale radioterapia che viene fatta convenzionalmente utilizzando fotoni. Questa terapia, grazie alle caratteristiche fisiche di estrema precisione, consente di colpire in modo selettivo il tumore in modo da risparmiare gli organi vitali circostanti. Si caratterizza, cioè, per essere una radioterapia di grande precisione, capace di elevata conformazione dei tessuti e di risparmio dei tessuti sani. E' particolarmente efficace per curare tumori radiosensibili e diverse neoplasie infantili.

Si tratta, quindi, di una procedura di avanguardia e il vostro Centro è uno dei pochi del genere in Europa: è così?

Amichetti: Ce ne sono 5 in Europa che producono protoni. Alcuni sono centri di ricerca o di fisica nucleare, altri sono deputati oltre alla ricerca, anche al trattamento clinico dei pazienti, così come avviene a Trento. La nostra, però, è una delle poche strutture al mondo che è all’interno di un ospedale pubblico, al di fuori da strutture di ricerca o private.

Quando sarà operativo il Centro?

Amichetti: Attualmente ci sono delle difficoltà di carattere organizzativo e burocratico che rallentano l’apertura, ma contiamo di assistere i primi pazienti entro l’estate. Quando saremo a regime, nel giro di un anno e mezzo o due, avremo una capacità di trattamento di circa 800 pazienti.

Questo trattamento verrà inserito nei Livelli minimi di assistenza garantiti dal Servizio sanitario nazionale?

Amichetti: La richiesta è stata portata all’attenzione del Ministero della salute che però non ha ancora messo a punto la pratica. L’inserimento nei Lea faciliterebbe senz’altro la possibilità di ricorrere a questo trattamento anche da fuori regione.

Tutto questo viene realizzato nell’ambito di un servizio pubblico: è un ulteriore motivo di orgoglio?

Amichetti: Il Centro di protonterapia è stato voluto dalla Provincia autonoma di Trento con un investimento di 104 milioni di euro sostenuto attraverso l’utilizzo di denaro interamente pubblico. Quest’anno la struttura è stata inserita all’interno del complesso dell’Azienda sanitaria provinciale e dell’ospedale di Trento: ha quindi le stesse caratteristiche – sia pure con una complessità tecnologica molto superiore – di qualsiasi altra unità operativa dell’azienda a dimostrare come anche l’attività pubblica possa offrire strutture di avanguardia e di eccellenza.

Fonte: Aleteia

giovedì 5 giugno 2014

Il Papa: no ai cristiani uniformisti, alternativisti e vantaggisti

Papa Francesco \ Messa a Santa Marta

La Chiesa “non è rigida”, la Chiesa “è libera”. E’ quanto sottolineato da Papa Francesco alla Messa mattutina a Casa Santa Marta. Nel sua omelia, il Pontefice ha messo in guardia da tre gruppi di persone che pretendono di chiamarsi cristiani: gli “uniformisti”, gli “alternativisti” e i “vantaggisti”. Per costoro, ha osservato, “la Chiesa non è casa loro”, la prendono “in affitto”. Il servizio di Alessandro Gisotti:
Gesù prega per la Chiesa e chiede al Padre che tra i suoi discepoli “non ci siano divisioni e liti”. Papa Francesco ha preso spunto dal Vangelo del giorno per soffermarsi proprio sull’unità nella Chiesa. “Tanti – ha osservato – dicono di essere nella Chiesa”, ma “sono con un piede dentro” e “l’altro ancora non è entrato”. Si riservano, così, la “possibilità di essere in ambedue i posti”, “dentro e fuori”. “Per questa gente – ha ammonito Francesco – la Chiesa non è la loro casa, non la sentono come propria. Per loro è un affitto”. Ci sono “alcuni gruppi – ha ribadito – che affittano la Chiesa, ma non la considerano la loro casa”. Il Papa ha, dunque, enumerato tre gruppi di cristiani: nel primo ci sono “quelli che vogliono che tutti siano uguali nella Chiesa”. “Martirizzando un po’ la lingua italiana”, ha scherzato, potremmo definirli gli “uniformisti”:
“L’uniformità. La rigidità. Sono rigidi! Non hanno quella libertà che dà lo Spirito Santo. E fanno confusione fra quello che Gesù ha predicato nel Vangelo con la loro dottrina, la loro dottrina di uguaglianza. E Gesù mai ha voluto che la sua Chiesa fosse così rigida. Mai. E questi, per tale atteggiamento, non entrano nella Chiesa. Si dicono cristiani, si dicono cattolici, ma il loro atteggiamento rigido li allontana dalla Chiesa”.
Un altro gruppo – ha proseguito – è fatto di quelli che hanno sempre una propria idea, "che non vogliono che sia come quella della Chiesa, hanno un’alternativa”. Sono, ha detto il Papa, gli “alternativisti”:
“Io entro nella Chiesa, ma con questa idea, con questa ideologia. E così la loro appartenenza alla Chiesa è parziale. Anche questi hanno un piede fuori della Chiesa. Anche per questi la Chiesa non è casa loro, non è propria. Affittano la Chiesa ad un certo punto. Al principio della predicazione evangelica ce n’erano! Pensiamo agli gnostici, che l’Apostolo Giovanni bastona tanto forte, no? ‘Siamo... sì, sì... siamo cattolici, ma con queste idee’. Un’alternativa. Non condividono quel sentire proprio della Chiesa”.
E il terzo gruppo, ha detto, è di quelli che “si dicono cristiani, ma non entrano dal cuore nella Chiesa”: sono i “vantaggisti”, quelli che “cercano i vantaggi, e vanno alla Chiesa, ma per vantaggio personale, e finiscono facendo affari nella Chiesa”:
“Gli affaristi. Li conosciamo bene! Ma dal principio ce n’erano. Pensiamo a Simone il Mago, pensiamo ad Anania e a Saffira. Questi approfittavano della Chiesa per il proprio profitto. E li abbiamo visti nelle comunità parrocchiali o diocesane, nelle congregazioni religiose, alcuni benefattori della Chiesa, tanti, eh! Si pavoneggiavano di essere proprio benefattori e alla fine, dietro il tavolo, facevano i loro affari. E questi, anche, non sentono la Chiesa come madre, come propria. E Gesù dice: ‘No! La Chiesa non è rigida, una, sola: la Chiesa è libera!’”.
Nella Chiesa, è stata la sua riflessione, “ci sono tanti carismi, c’è una grande diversità di persone e di doni dello Spirito!”. Il Signore, ha proseguito Papa Francesco, ci dice: “Se tu vuoi entrare nella Chiesa, che sia per amore”, per dare “tutto il cuore e non per fare affari a tuo profitto”. La Chiesa, ha rimarcato, “non è una casa da affittare”, la Chiesa “è una casa per vivere”, “come madre propria”.
Il Papa riconosce che questo non è facile, perché “le tentazioni sono tante”. Ma, ha evidenziato, a fare l’unità nella Chiesa, “l’unità nella diversità, nella libertà, nella generosità soltanto è lo Spirito Santo”, “questo è il suo compito”. Lo Spirito Santo, ha soggiunto, “fa l’armonia nella Chiesa. L’unità nella Chiesa è armonia”. Tutti, ha osservato, “siamo diversi, non siamo uguali, grazie a Dio”, altrimenti “sarebbe un inferno!”. E “tutti siamo chiamati alla docilità allo Spirito Santo”. Proprio questa docilità, ha detto il Papa, è “la virtù che ci salverà dall’essere rigidi, dall’essere ‘alternativisti’ e dall’essere ‘vantaggisti’ o affaristi nella Chiesa: la docilità allo Spirito Santo”. Ed è proprio “questa docilità che trasforma la Chiesa da una casa in affitto ad una casa propria”.
“Che il Signore – ha concluso il Pontefice – ci invii lo Spirito Santo e che faccia questa armonia nelle nostre comunità - comunità parrocchiali, diocesane, comunità dei movimenti - che sia lo Spirito a fare questa armonia, perché come diceva un Padre della Chiesa: Lo Spirito, Lui stesso è l’armonia”.

da radiovaticana

lunedì 2 giugno 2014

Il Papa: matrimonio cristiano è fedele, perseverante e fecondo

Papa Francesco \ Messa a Santa Marta


Fedele, perseverante, fecondo. Sono queste le tre caratteristiche dell’amore che Gesù nutre verso la Chiesa, la sua Sposa. E queste sono anche le caratteristiche di un autentico matrimonio cristiano. Lo ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa mattutina celebrata in Casa S. Marta.

Il servizio di Alessandro De Carolis:

Una quindicina di coppie, una quindicina di storie matrimoniali, di famiglia, cominciate 25, 50, 60 anni fa davanti a un altare e che davanti all’altare di Papa Francesco si ritrovano assieme per ringraziare Dio del traguardo raggiunto. Una scena insolita per la cappella di Casa S. Marta, che offre al Papa l’occasione di riflettere sui tre pilastri che nella visione della fede devono sostenere un amore sponsale: fedeltà, perseveranza, fecondità. Modello di riferimento, spiega, sono i “tre amori di Gesù” per il Padre, per sua Madre, per la Chiesa. “Grande” è l’amore di Gesù per quest’ultima, afferma Papa Francesco: “Gesù sposò la Chiesa per amore”. E’ “la sua sposa: bella, santa, peccatrice, ma la ama lo stesso”. E il suo modo di amarla mette in mostra, dice, le “tre caratteristiche” di questo amore:
“È un amore fedele; è un amore perseverante, non si stanca mai di amare la sua Chiesa; è un amore fecondo. E’ un amore fedele! Gesù è il fedele! San Paolo, in una delle sue Lettere, dice: ‘Se tu confessi Cristo, Lui ti confesserà, a te, davanti al Padre; se tu rinneghi Cristo, Lui ti rinnegherà, a te; se tu non sei fedele a Cristo, Lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso!’. La fedeltà è proprio l’essere dell’amore di Gesù. E l’amore di Gesù nella sua Chiesa è fedele. Questa fedeltà è come una luce sul matrimonio. La fedeltà dell’amore. Sempre”.
Fedele sempre, ma anche sempre instancabile nella sua perseveranza. Proprio come l’amore di Gesù per la sua Sposa. "Tante volte" Gesù perdona la Chiesa e allo stesso modo, constata Papa Francesco, anche all'interno della coppia alle volte "si chiede perdono" e così "l'amore matrimoniale va avanti":
“La vita matrimoniale deve essere perseverante, deve essere perseverante. Perché al contrario l’amore non può andare avanti. La perseveranza nell’amore, nei momenti belli e nei momenti difficili, quando ci sono i problemi: i problemi con i figli, i problemi economici, i problemi qui, i problemi là. Ma l’amore persevera, va avanti, sempre cercando di risolvere le cose, per salvare la famiglia. Perseveranti: si alzano ogni mattina, l’uomo e la donna, e portano avanti la famiglia”.
Terzo tratto, la “fecondità”. L’amore di Gesù, osserva Papa Francesco, “fa feconda la Chiesa con nuovi figli, Battesimi, e la Chiesa cresce con questa fecondità nuziale”. In un matrimonio questa fecondità può essere talvolta messa alla prova, quando i figli non arrivano o sono ammalati. In queste prove, sottolinea il Papa, ci sono coppie che “guardano Gesù e prendono la forza della fecondità che Gesù ha con la sua Chiesa”. Mentre, sul versante opposto, conclude, “ci sono cose che a Gesù non piacciono”, ovvero i matrimoni sterili per scelta:
“Questi matrimoni che non vogliono i figli, che vogliono rimanere senza fecondità. Questa cultura del benessere di dieci anni fa ci ha convinto: ‘E’ meglio non avere i figli! E’ meglio! Così tu puoi andare a conoscere il mondo, in vacanza, puoi avere una villa in campagna, tu stai tranquillo’... Ma è meglio forse - più comodo – avere un cagnolino, due gatti, e l’amore va ai due gatti e al cagnolino. E’ vero o no questo? Lo avete visto voi? E alla fine questo matrimonio arriva alla vecchiaia in solitudine, con l’amarezza della cattiva solitudine. Non è fecondo, non fa quello che Gesù fa con la sua Chiesa: la fa feconda”.

Fonte: radiovaticana

Che cos'è l'effusione dello Spirito Santo?

Una risposta di Dio alla disfunzione in cui è venuta a trovarsi la vita cristiana

L'effusione dello Spirito non è un sacramento, ma si dice in rapporto ad un sacramento, anzi a più sacramenti: ai sacramenti dell'iniziazione cristiana. L'effusione attualizza e, per così dire, rinnova l'iniziazione cristiana. Il rapporto fondamentale è però, con il sacramento del Battesimo. La designazione «battesimo dello Spirito» con cui l'effusione veniva chiamata fino a poco fa e con cui è ancora chiamata dai nostri fratelli americani, non voleva dire altro che questo, cioè che si tratta di qualcosa che si fonda sul sacramento del battesimo. Noi diciamo che l'effusione dello Spirito attualizza e ravviva il nostro battesimo. Per capire come un sacramento ricevuto tanti anni fa, addirittura agli inizi della vita, possa improvvisamente ritornare a rivivere e a sprigionare tanta energia quanta ne vediamo in occasione dell'effusione, bisogna tenere presente alcuni elementi di teologia sacramentale. La teologia cattolica conosce l'idea di sacramento valido e lecito, ma «legato». Un sacramento si dice legato se il suo frutto rimane vincolato, non usufruito per mancanza di certe condizioni che ne impediscono l'efficacia. Un esempio estremo è il sacramento del matrimonio o dell'ordine sacro ricevuto in stato di peccato mortale. In queste condizioni tali sacramenti non possono conferire nessuna grazia alle persone; rimosso però l'ostacolo del peccato, con la penitenza, si dice che il sacramento «rivivisce» (reviviscit) grazie al carattere indelebile o, detto più biblicamente, grazie alla fedeltà e alla irrevocabilità del dono di Dio: "Dio resta fedele anche se noi siamo infedeli perché egli non può rinnegare se stesso" (2Tm 2,13).

Quello del matrimonio o dell'ordine sacro ricevuto in stato di peccato è un caso estremo ma sono possibili altri casi in cui il sacramento, pur non essendo del tutto legato, non è però del tutto sciolto, cioè libero di operare i suoi effetti. Nel caso del battesimo, che cos'è che fa si che il frutto del sacramento resti legato? Bisogna richiamare qui la dottrina classica dei sacramenti. I sacramenti non sono riti magici che agiscono meccanicamente, all'insaputa dell'uomo, o prescindendo da ogni sua collaborazione. La loro efficacia è frutto di una sinergia o collaborazione tra l'onnipotenza divina (in concreto: la grazia di Cristo o lo Spirito Santo) e la libertà umana, perché ha detto S. Agostino: "Chi ti ha creato senza il tuo concorso non ti salva senza il tuo concorso". Ancora più precisamente, il frutto del sacramento dipende tutto dalla grazia divina; solo che questa grazia divina non agisce senza il «sì», cioè il consenso e l'apporto della creatura, che è più una conditio sine qua non che non una concausa. Dio si comporta come lo sposo che non impone il suo amore per forza, ma attende il «sì» libero della sposa.

L'opera di Dio e l'opera dell'uomo nel Battesimo
Tutto ciò che dipende dalla grazia divina e dalla volontà di Cristo, nel sacramento si chiama Opus Operatum, che possiamo tradurre: opera già realizzata, frutto oggettivo e immancabile del sacramento, quando è amministrato validamente. Tutto ciò che invece dipende dalla libertà e dalle disposizioni del soggetto si chiama Opus Operantis cioè: opera da realizzare, apporto dell'uomo. L'Opus Operantum del battesimo, cioè la parte di Dio o la grazia, è molteplice e ricchissima: remissione dei peccati, dono delle virtù teologali della fede, speranza e carità (queste sono in germe), figliolanza divina; il tutto operato mediante l'efficace azione dello Spirito Santo. "Battezzati, noi siamo illuminati; illuminati, siamo resi perfetti; resi perfetti riceviamo l'immortalità... Questa operazione del battesimo ha nomi diversi: grazia, illuminazione (fotismos), perfezione, bagno. Bagno per cui siamo purificati dai nostri peccati; grazia per la quale i castighi meritati per i nostri peccati sono tolti; illuminazione nella quale noi contempliamo la bella e santa luce della salvezza, cioè per la quale penetriamo con lo sguardo divino; perfezione perché nulla manca"(Clemente Alessandrino, Pedagogo 1,6,26). Il battesimo è davvero un ricchissimo pacco-dono che abbiamo ricevuto al momento della nostra nascita in Dio. Ma è un pacco dono ancora non svolto, sigillato. Noi siamo ricchi perché possediamo quel pacco (e perciò possiamo compiere tutti quegli atti necessari alla vita cristiana), ma non sappiamo cosa possediamo; parafrasando una parola di Giovanni, potremmo dire: "…noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che siamo non è stato ancora rivelato"(1Gv 3,2). Ecco perché diciamo che, nella maggioranza dei cristiani, il battesimo è un sacramento «legato». Fin qui l'Opus Operatum. Ma in che consiste nel battesimo l'Opus Operantis, cioè la parte dell'uomo? Consiste nella «fede!»."Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo"(Mc 16,16). Accanto al battesimo c'è dunque un altro elemento: la fede dell'uomo. Ci ricorda il prologo del Vangelo di Giovanni: "A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome"(Gv 1,12). Possiamo anche ricordare quel bel testo degli Atti degli Apostoli che narra del battesimo di un eunuco, funzionario della regina Candàce: "Proseguendo lungo la strada, giunsero ad un luogo dove c'era acqua e l'eunuco disse:«Ecco qui c'è acqua; che cosa mi impedisce di essere battezzato?» Filippo dice: «Se credi con tutto il cuore è permesso...»"(At 8,36-37). Il battesimo è come il sigillo divino posto sulla fede dell'uomo: "…dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto (si intende nel battesimo) il suggello dello Spirito Santo"(Ef 1,13). Scrive San Basilio:"In verità la fede e il battesimo, questi due modi della salvezza, sono legati l'uno all'altro e indivisibili, poiché se la fede riceve dal battesimo la sua perfezione, il battesimo si fonda sulla fede"(Sullo Spirito Santo,12,5, C. 17, P. 157). Lo stesso Santo chiama il battesimo: "sigillo della fede"(Contro Eunomio III, 5, P.G. 29,655). L'opera dell'uomo, cioè la fede, non ha la stessa importanza e autonomia dell'opera di Dio, perché nell'atto stesso di fede c'è una parte di Dio; è esso stesso opera della grazia che lo suscita. Tuttavia l'atto di fede comprende come elemento essenziale anche la risposta, il «credo» dell'uomo, e in questo senso noi lo chiamiamo opus operantis, cioè opera dell'uomo.
Il Battesimo alle origini della Chiesa e oggi
Si capisce, adesso, perché nei primi tempi della Chiesa il battesimo era un evento così potente e ricco di grazia e perché non c'era bisogno, normalmente di una nuova effusione dello Spirito, come quella che facciamo oggi. Il battesimo veniva amministrato ad adulti che si convertivano dal paganesimo e che, convenientemente istruiti, erano in grado di fare, in occasione del battesimo, un atto di fede e una scelta esistenziale libera e matura; basta leggere la Catechesi mistagogica sul battesimo, attribuita a Cirillo di Gerusalemme, per rendersi conto della profondità di fede cui erano condotti i battezzandi. Al battesimo insomma si arrivava attraverso una vera e propria conversione: per essi il battesimo era davvero un lavacro di rinnovamento personale, oltreché di "...rigenerazione e rinnovamento nello Spirito Santo"(Tt 3,5b). Mi ha impressionato un testo di San Basilio: a uno che gli aveva chiesto di scrivere un trattato sul battesimo, San Basilio risponde che non può spiegare cosa significa il battesimo senza aver spiegato prima cosa significa essere discepoli di Gesù poiché il comando del Signore dice: "Andate, e fate discepole tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutte le cose che vi ho comandato" (Mt 28,19-20).

Perché il battesimo operi in tutta la sua forza bisogna che chi si accosta ad esso sia un discepolo, o sia intenzionato a diventarlo seriamente: "Discepolo è, come apprendiamo dal Signore stesso, chiunque si accosta al Signore per seguirlo, cioè per ascoltare le sue parole, credere e ubbidire a lui come a padrone e re e medico e maestro di verità... ora colui che crede nel Signore e si presenta come pronto al discepolato deve prima allontanarsi da ogni peccato, e poi anche da tutte le cose che distolgono dall'ubbidienza, per molte ragioni dovuta al Signore, anche se sembrino all'apparenza ragionevoli"(San Basilio, Sul battesimo I, 1 p. 121 SG.). La condizione favorevole che permetteva al battesimo, alle origini della Chiesa, di operare con tanta potenza era dunque questa: che l'opera di Dio e l'opera dell'uomo si incontravano contemporaneamente, c'era un sincronismo perfetto; avveniva come quando due poli si toccano e così fanno sprigionare la luce. Ora questo sincronismo si è rotto; ricevendo il battesimo da bambini venne a mancare a poco a poco un atto di fede libero e personale. Esso veniva supplito, ed emesso, per così dire, per interposta persona (genitori, padrini). Di fatto, una volta, quando tutto l'ambiente che circondava il bambino era cristiano e impregnato di fede, questa fede poteva sbocciare anche se più lentamente. Ma ora non è più così; la nostra condizione è venuta ad essere peggiore ancora di quella del Medio Evo: l'ambiente infatti in cui il bambino cresce non è tale da aiutarlo a sbocciare nella fede: non lo è spesso la famiglia, non lo è ancora più spesso la scuola e non lo è, meno che meno, la società e la cultura. Questo non significa affermare che non c'è, in questa situazione, una vita cristiana normale, né che sia mancata la santità e i carismi che l'accompagnano; solo che anziché un fatto normale, ciò è divenuto sempre più, agli occhi dei cristiani, un'eccezione. In questa situazione raramente, o mai, il battezzato arriva a proclamare "in Spirito Santo": Gesù è il Signore!...e finché non si arriva a questo punto, tutto nella vita cristiana è sfuocato immaturo. Non avvengono più i miracoli; si ripete ciò che avvenne per i nazaretani: "Gesù non poté fare molti miracoli a causa della loro incredulità, della loro mancanza di fede"(Mt 13,58).

Il significato dell'effusione dello Spirito
Ecco allora il senso dell'effusione dello Spirito: Essa è una risposta di Dio alla disfunzione in cui è venuta a trovarsi la vita cristiana. In questi ultimi anni si sa che anche la Chiesa, i Vescovi hanno cominciato a preoccuparsi del fatto che i sacramenti cristiani, specialmente il battesimo, vengono amministrati a persone che poi non ne faranno alcun uso nella vita, e hanno prospettato la possibilità di non dare il battesimo quando manchino le garanzie minime che esso sia coltivato e valorizzato dal bambino. «Non si possono gettare le perle ai porci» come diceva Gesù, e il battesimo è una perla preziosa perché esso è il frutto del sangue di Cristo. Ma si direbbe che il Signore si è preoccupato, prima ancora della Chiesa, di questa disfunzione e ha suscitato qua e la nella Chiesa movimenti tendenti a rinnovare negli adulti l'iniziazione cristiana. Il Rinnovamento nello Spirito è uno di questi movimenti e in esso la grazia principale è senza dubbio legata all'effusione dello Spirito e a ciò che la precede. La sua efficacia nel "riattivare" il battesimo consiste in questo: che finalmente l'uomo reca la sua parte, cioè faccia una scelta di fede, preparata nel pentimento, che permetta all'opera di Dio di «liberarsi» e di sprigionare tutta la sua forza. Come se la mano tesa di Dio finalmente incontrasse quella dell'uomo e, nella stretta, potesse far passare tutta la sua forza creatrice che è lo Spirito Santo. Come se, per usare un'immagine tratta dal mondo fisico, la spina venisse inserita nella presa e la luce finalmente si accendesse. Il dono di Dio viene finalmente «slegato» e lo Spirito si espande come profumo sulla vita cristiana Nell'adulto che ha già alle spalle una lunga vita cristiana, questa scelta di fede ha necessariamente il carattere di una «conversione». Potremmo descrivere l'effusione dello Spirito, per quanto riguarda la parte dell'uomo, sia come un rinnovamento del battesimo, che come una seconda conversione. Possiamo capire qualche cosa di più dell'effusione, vedendola in rapporto anche con la Confermazione (Cresima), almeno nella prassi attuale, in cui questo sacramento è staccato dal battesimo e amministrato in età avanzata. Oltre che un rinnovamento della grazia del battesimo, l'effusione è anche una «conferma» del proprio battesimo, un «sì» cosciente detto ad esso, ai suoi frutti  e ai suoi impegni, e come tale si affianca (almeno per l'aspetto soggettivo di esso) a quello che opera, sul piano oggettivo e sacramentale, la confermazione: questa infatti è vista come un sacramento che sviluppa , conferma e porta a compimento l'opera del battesimo. L'effusione è una confermazione soggettiva e spontanea non sacramentale in cui lo Spirito Santo agisce non in forza dell'istituzione (sacramento), ma in forza della libera iniziativa dello Spirito e della disponibilità del soggetto. Dal riferimento alla confermazione, viene anche quello speciale senso di un maggiore coinvolgimento nella dimensione apostolica e missionaria della Chiesa che di solito si nota  in chi riceve l'effusione dello Spirito. Ci si sente spinti a collaborare di più all'edificazione della Chiesa, al mettersi al sevizio di essa nei vari ministeri sia clericali che laicali, a dare testimonianza a Cristo; tutte cose, queste, che richiamano l'evento della Pentecoste e sono attualizzate nel sacramento della Cresima.
Amore fraterno, preghiera e imposizione delle mani nell'effusione dello Spirito
L'effusione dello Spirito non è l'unica occasione che si conosca nella Chiesa per questa riviviscenza dei sacramenti dell'iniziazione e in particolare dello Spirito Santo nell'anima in occasione del battesimo. C'è, per esempio, il rinnovamento delle promesse battesimali nella veglia pasquale, ci sono gli esercizi spirituali, c'è la professione religiosa, chiamata un "secondo battesimo" e, a livello sacramentale, abbiamo detto la Confermazione. Non è difficile poi scoprire spesso nella vita dei santi la presenza di una effusione spontanea, specialmente in occasione della loro conversione. Ecco per esempio cosa si legge di san Francesco al momento della sua conversione: "Terminato il banchetto, uscirono di casa. Gli amici gli camminavano innanzi; lui, tenendo in mano una specie di scettro, veniva per ultimo; ma invece di cantare, era assorto nelle sue riflessioni. D'improvviso, il Signore lo visitò e ne ebbe il cuore riboccante di tanta dolcezza, che non poteva muoversi né parlare, non percependo se non quella soavità, che lo estraniava da ogni sensazione...Gli amici, voltandosi e scorgendolo rimasto così lontano, lo raggiunsero e restarono trasecolati nel vederlo mutato quasi in un altro uomo. Lo interrogarono: «A cosa stai pensando, che non ci hai seguiti? Almanaccavi forse di prendere moglie?» Rispose con slancio: «E' vero! Stavo pensando di prendermi in sposa la ragazza più nobile, ricca e bella che mai abbiate visto.» I compagni si misero a ridere. Francesco disse questo non di sua iniziativa, ma ispirato da Dio"(Leggenda dei tre compagni, 3,7). Dicevo che l'effusione dello Spirito non è l'unica occasione di rinnovamento della grazia battesimale. Essa però occupa un posto del tutto particolare per il fatto di essere aperta a tutto il popolo di Dio, piccoli e grandi, e non soltanto ad alcuni privilegiati che fanno gli esercizi spirituali ignaziani o che emettono la professione religiosa. Da dove proviene questa straordinaria forza che abbiamo sperimentato in occasione dell'effusione? Noi infatti non stiamo parlando di una teoria, ma di qualcosa che abbiamo sperimentato noi stessi, per cui possiamo dire come Giovanni: "...ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi,...ciò che le nostre mani hanno toccato,...questo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi" (1Gv 1,1.3).

La spiegazione di questa forza è nella volontà di Dio: perché è piaciuto a Dio oggi rinnovare la Chiesa per questo mezzo e basta! Ci sono certamente dei precedenti biblici come quello narrato in Atti 8,14-17, quando Pietro e Giovanni, saputo che la Samaria aveva accolto la parola di Dio, vi discesero, pregarono per loro, e imposero loro le mani perché ricevessero lo Spirito Santo. Ma questi precedenti biblici, per altro rari e non univoci nel significato, non bastano a spiegare la vastità e la profondità del fenomeno odierno legata all'effusione dello Spirito. La spiegazione dunque è nel disegno di Dio. Potremmo dire, parafrasando un detto famoso dell'Apostolo: "Poiché i cristiani, con tutta la loro organizzazione, non hanno saputo trasmettere la potenza dello Spirito, è piaciuto a Dio rinnovare i credenti mediante la stoltezza dell'effusione. I teologi infatti cercano spiegazione e le persone responsabili cercano moderazione, ma i semplici toccano con mano la potenza di Cristo nell'effusione"(cfr 1Cor 1,21-24). Noi uomini e in particolare noi uomini di Chiesa, tendiamo a lesinare a Dio la sua libertà; tendiamo a tracciargli dei percorsi obbligati (i cosiddetti canali della grazia), dimenticando che Dio è un torrente che straripa e si crea da solo il proprio letto e che lo Spirito soffia dove e come vuole.

In che consiste l'effusione e come agisce? Nell'effusione c'è una parte segreta, misteriosa di Dio ed è il suo modo di farsi presente, di agire che è diverso per ognuno perché lui solo ci conosce nell'intimo e può agire e valorizzare la nostra inconfondibile personalità; e c'è una parte palese, della comunità, che è uguale per tutti e che costituisce una specie di segno, con una certa analogia rispetto a quello che sono i segni dei sacramenti. La parte visibile o della comunità, consiste soprattutto in tre cose: amore fraterno, imposizione delle mani e preghiera. Sono elementi non sacramentali, ma semplicemente ecclesiali. L'imposizione delle mani può avere due significati: un significato di invocazione e un significato di consacrazione. Vediamo, per esempio, presenti entrambi questi tipi di imposizione delle mani nella Messa: c'è una imposizione delle mani di carattere invocatorio (almeno per noi latini) ed è quella che il sacerdote fa sulle offerte al momento dell'epiclesi, quando prega dicendo: "Lo Spirito Santo santifichi questi doni perché diventino il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo"; e c'è una imposizione delle mani consacratoria ed è quella che fanno i celebranti sulle offerte al momento della consacrazione. Nel rito stesso della cresima, come si svolgono oggigiorno, vi sono due imposizioni delle mani: una di carattere invocatorio e un'altra consacratoria che accompagna il gesto dell'unzione sulla fronte, nella quale si realizza il sacramento vero e proprio. Nell'effusione dello Spirito l'imposizione delle mani ha un carattere soltanto invocatorio (sulla linea di ciò che incontriamo in Gen. 48,14; Lev. 9,22; Mc.10 13-16; Mt.19 13-15). Ha anche un valore altamente simbolico: richiama l'immagine dello "Spirito Santo che copre con la sua ombra"(Lc 1,35); ricorda anche "lo Spirito Santo che aleggiava sulle acque"(Gen 1,2c). Questo simbolismo del gesto dell'imposizione delle mani è messo in luce da Tertulliano quando parla dell'imposizione delle mani sui battezzati: "La carne è adombrata dall'imposizione delle mani perché l'anima sia illuminata dallo Spirito"(Sulla risurrezione dei morti, 8,3). C'è un paradosso, come in tutte le cose di Dio: l'imposizione delle mani illumina adombrando, come la nube che seguiva il popolo eletto nell'Esodo e come la nube che avvolse i discepoli sul Tabor (cfr. Mt 17,5). Gli altri due elementi sono, abbiamo detto, la preghiera e l'amore fraterno; potremo dire: l'amore fraterno che si esprime in preghiera. L'amore fraterno è segno e veicolo dello Spirito Santo; lo Spirito Santo che è l'Amore, trova nell'amore fraterno il suo ambiente naturale, il suo segno per eccellenza. Non si esagera mai abbastanza l'importanza di un clima di vero amore intorno al fratello che deve ricevere l'effusione. Anche la preghiera è messa in rapporto stretto, nel Nuovo Testamento, con l'effusione dello Spirito Santo. Del battesimo di Gesù si dice che: "mentre stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo"(Lc 3,21-22). Fu la preghiera di Gesù, si direbbe, a far aprire i cieli e a far scendere su di lui lo Spirito Santo. Anche l'effusione della Pentecoste avvenne così: "Mentre tutti costoro erano perseveranti nella preghiera, ...venne dal cielo un rombo come di tuono e apparvero lingue di fuoco..."(cfr. At 1,14-2,1ss). Del resto Gesù stesso aveva detto: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore"(Gv 14,16). Ogni volta l'effusione dello Spirito è messa in rapporto con la preghiera. Questi segni: l'imposizione delle mani, la preghiera e l'amore fraterno parlano tutti di semplicità, sono strumenti semplici. Proprio in questo essi recano il marchio delle azioni di Dio:"non c'è nulla – scrive Tertulliano a proposito del battesimo – che lascia così attonite le menti degli uomini come la semplicità delle azioni divine che si vedono in atto e la magnificenza degli effetti che vengono conseguiti...le proprietà di Dio sono: semplicità e potenza"(Sul battesimo, 2,1 ss).
Il contrario di ciò che fa il mondo: nel mondo più sono grandi gli obbiettivi da conseguire più l'apporto dei mezzi è complicato; quando poi si vuole arrivare sulla luna questo apparato diventa gigantesco. Se la semplicità è il marchio dell'agire divino, bisogna preservare assolutamente questo marchio nel conferire l'effusione dello spirito. Per questo la semplicità deve risplendere in tutto: nella preghiera e nei gesti; niente cose teatrali, gesti eccitati, multiloquio ecc.....La Bibbia fa notare, a proposito del sacrificio del Carmelo, il contrasto stridente tra l'agire dei sacerdoti di Baal che gridano, danzano da scalmanati e si fanno incisioni a sangue, e l'agire di Elia che prega invece semplicemente così: "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe...rispondimi e questo popolo sappia che tu sei il Signore Dio e che converti il loro cuore!"(1Re 18,25-38). Il fuoco del Signore calò sul sacrificio di Elia e non su quello dei sacerdoti di Baal. Elia stesso, poco dopo, fece l'esperienza che Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era nel mormorio di un vento leggero (cfr.1 Re 19,11-13). Da dove viene la grazia che si sperimenta nell'effusione? Dagli astanti?...No!...Dal soggetto che la riceve?...No!...Viene da Dio!Non ha senso chiedersi se viene da dentro il soggetto o da fuori: Dio è dentro e fuori. Possiamo solo dire che tale grazia ha rapporto con il battesimo perché Dio agisce sempre con coerenza e con fedeltà, non fa e disfà. Egli fa onore all'impegno e all'istituzione di Cristo. Una cosa è certa: non sono i fratelli a conferire lo Spirito Santo; essi non danno lo Spirito Santo al fratello, ma invocano lo Spirito Santo sul fratello. Lo Spirito non può essere dato da nessun uomo, neppure dal Papa o dal vescovo, perché nessun uomo possiede in proprio lo Spirito Santo. Solo Gesù può dare in senso proprio lo Spirito Santo; gli altri non possiedono lo Spirito Santo, ma piuttosto sono posseduti da lui. Quanto al modo di questa grazia possiamo parlare di una nuova venuta dello Spirito Santo, di una nuova missione da parte del Padre attraverso Gesù Cristo o di una nuova unzione corrispondente al nuovo grado di grazia. In questo senso, l'effusione, se non è un sacramento, è però un evento spirituale: questa potrebbe essere la definizione che più si avvicina alla realtà. Un evento, dunque qualcosa che avviene, che lascia il segno, che crea una novità in una vita; ma un «evento spirituale» (non storico). Spirituale perché avviene nello spirito, cioè nell'interiore dell'uomo e gli altri possono benissimo non accorgersi di nulla; spirituale, soprattutto perché esso è opera dello Spirito Santo. Concludo questo insegnamento con un bel testo dell'apostolo Paolo che parla proprio della riviviscenza del dono di Dio, Ascoltiamolo come un invito a ciascuno di noi:

 
Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te
per l'imposizione delle mani.
Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza,
ma di forza, di amore, di saggezza. (2Tm 1,6-7).

Accanto ai poveri si’, ma “vescovo rosso” no – Padre Gheddo su “Avvenire”



BY GHEDDOPIERO2014 · 25 MAGGIO 2014

Helder Camara, l’ho conosciuto da vicino anche a lungo in Brasile e in Italia. Chi ha vissuto con lui non può che condividere questa voce di popolo. Nato nel 1909 nel Nord-Est brasiliano, prete nel 1931, si impegna con numerose iniziative per i più sfavoriti (sindacato delle donne operaie, cooperative) e manifesta fin da giovane un grande carisma e capacità organizzativa. Nel 1936 è segretario dell’educazione cattolica a Rio de Janeiro, dove diventa vescovo ausiliare nel 1952. La Conferenza episcopale brasiliana, di cui è il primo segretario per dodici anni, nasce nel 1952 su sua proposta e con l’appoggio del nunzio apostolico mons. Carlo Chiarlo. Tre anni dopo stimola la convocazione a Rio della prima Conferenza dei vescovi latino-americani, da cui nasce il Celam. A Rio incominciano a chiamarlo “il vescovo delle favelas”: in una Chiesa ancora bloccata in schemi coloniali, un vescovo giovane, dinamico, dal cuore grande, che supera ogni formalismo per essere vicino ai poveri. Al Congresso Eucaristico Internazionale del 1955 a Rio, da lui organizzato, il Legato pontificio cardinale Gerlier di Lione gli dice: “Perché non mette il suo talento organizzativo a servizio dei poveri, per risolvere i problemi delle favelas qui a Rio, la città più bella ma anche la più spaventosa del mondo?”.
Questa la scintilla che spinge ancora più dom Helder verso l’impegno molto concreto per i poveri, al di fuori di ogni convenzione, sempre richiamandosi all’esempio di Cristo. I suoi appelli accorati attraverso radio, stampa e televisione, scuotono le coscienze; le sue proposte e iniziative gli attirano l’astio e il sospetto dei militari al potere (dal 1964) e delle classi alte. I mass media lo esaltano per la testimonianza personale e la capacità di trascinare le folle, ma lo battezzano “il vescovo rosso”, senza che nulla di concreto potesse offrire pretesti a questa etichetta. L’ho intervistato durante il Concilio Vaticano II e ho tradotto in italiano, mettendo assieme suoi discorsi e articoli (che mi aveva dato lui stesso in una mia visita a Recife), il suo primo libro “Terzo Mondo defraudato” (Emi, 1966) che ebbe dodici traduzioni all’estero. Ricordo bene che già allora rifiutava inviti a Cuba e commistioni con correnti politiche (anche di cattolici) che esaltavano la “liberazione” promessa dai “movimenti di liberazione” in America Latina. “Come cristiano – diceva – non posso accettare la violenza armata. Sono convinto che solo l’amore può costruire, non ho alcuna fiducia nell’odio. Questo ho capito dal Vangelo e questo predico. Forse altri, come Camilo Torres, partendo dallo stesso Vangelo sono arrivati a opposte conclusioni. Li rispetto ma non ne condivido il pensiero”.
Dopo il 1964, quando Camara diventa arcivescovo di Recife, capitale del Nord-Est brasiliano, tutto questo acquista dimensione mondiale. All’inizio degli anni settanta, il piccolo e infuocato dom Helder è candidato ufficiale al Premio Nobel per la Pace, ma la sua candidatura non passa. Il 12 febbraio 1974 riceve nel Palazzo comunale di Oslo il Premio alternativo della pace. Incominciano i viaggi in America e in Europa, in Giappone e in Africa e dom Helder porta ovunque la sua straordinaria capacità di infiammare l’uditorio in tutte le lingue, anche in quelle che conosceva davvero poco. Ma era un oratore che affascinava solo al vederlo, con i gesti, il tono della voce, il sorriso, la varietà delle espressioni che il suo volto rugoso assumeva. Qualcuno l’ha definito “un grande attore”, banalizzando un santo. Camara portava in scena solo la sua vita, la sua passione per i poveri. Quando piangeva e commuoveva tutti raccontando la miseria delle periferie del terzo mondo, era davvero un momento magico in cui appariva l’uomo di Dio; quando denunziava i crimini del capitalismo internazionale e nazionale, assumeva il tono autentico di un profeta biblico, da non confondere con un agitatore politico, anche se a volte i suoi gesti e discorsi erano letti e strumentalizzati in quel senso. La liberazione, secondo Camara, viene da Cristo, non dalla rivoluzione socialista.
Altri ricordi di lui. Quando ci siamo incontrati a Puebla (Messico) nel gennaio 1979, in occasione dell’Assemblea del Celam, nei tempi caldi della Teologia della Liberazione, in un’intervista avevo chiesto il suo parere sui teologi della liberazione; alcuni di essi, nei loro incontri quotidiani con i giornalisti, avevano esaltato Cuba e l’invasione sovietica dell’Afghanistan, come segni della liberazione che si stava realizzando per i popoli poveri. Dom Helder ci pensa un po’ e poi, dicendo che non voleva giudicare dei confratelli, aggiunge: “Digli che se quella liberazione arrivasse anche in Brasile e in America Latina, loro sarebbero tra i primi a finire dietro le sbarre”. Quando poi, al termine dei giorni di Puebla, sono tornato in Italia con mons. Ferdinando Maggioni (allora vescovo di Alessandria e presidente della Commissione missionaria della CEI), sull’aereo abbiamo parlato di Dom Helder e lui mi diceva: “Ero suo vicino di stanza nel seminario maggiore di Puebla. Secondo me è veramente un santo che prega molto. Non so come fa a resistere, ma mangia poco e dorme poco. Di notte si alza e va in cappella a pregare. Sono rimasto edificato del suo spirito religioso”. Pochi anni dopo, Helder Camara ha scritto la prefazione al mio volume “Os Povos da fome” (O Recado, Sào Paulo 1984), traduzione di “I popoli della fame” (Emi 1982), cogliendo molto bene, in due paginette, lo spirito e i contenuti del libro, che erano anche i suoi, che allora mi erano contestati e oggi sono comunemente ammessi.
Per concludere. Il cardinale Moreira Neves, prefetto della Congregazione per i vescovi, ha scritto dopo la sua morte il 27 agosto 1999: “Monsignor Camara si alzava di notte per pregare… Oggi dobbiamo sperare che abbia dei veri seguaci per il suo impegno sociale, ma anche per la spiritualità in cui ha sempre vissuto”.

Piero Gheddo

Avvenire – febbraio 2009

Madre Speranza, testimone della Misericordia di Dio



Beatificata la suora che per tutta la vita ha fatto conoscere l'amore di Dio per l'umanità

Roma, 01 Giugno 2014 (Zenit.org) Antonio Gaspari

Di famiglia poverissima, primogenita di nove figli. Il padre era operaio agricolo e la madre casalinga. Non ha mai frequentato una scuola, e solo grazie alla carità di un conoscente e all’attenzione di due sorelle del parroco imparò a leggere e scrivere. Intelligentissima, buona, fedele, a 21 anni entrò nella Congregazione delle "Figlie del Calvario" a Villena (Spagna). La sua fede era così intensa che pur non avendo seguito nessun corso di studi a 37 anni fondò la Congregazione delle Ancelle dell'Amore Misericordioso. Aveva 58 anni quandò fondò il ramo maschile dei Figli dell’Amore Misericordioso. Insieme i due Ordini hanno annunciato e testimoniato al mondo “le ricchezze della misericordia di Dio”.


Stiamo parlando di María Josefa Alhama Valera, religiosa e mistica spagnola più nota come Madre Speranza di Gesù, che ieri a Todi, di fronte a decine di migliaia di persone è stata beatificata.

Nella sua omelia, il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia, ha sottolineato che per comprendere l’azione di Madre Speranza bisogna leggere i suoi appunti autobiografici, in cui la Beata scriveva: “La rivelazione di Dio 'Amore Misericordioso' costituisce il cuore del nostro carisma. Egli (il buon Gesù) - si legge ancora - mi diceva che io devo arrivare a far sì che gli uomini lo conoscano non come un Padre offeso per le ingratitudini dei suoi figli, ma come un Padre pieno di bontà che cerca con tutti i mezzi di confortare, aiutare e rendere felici i propri figli, e che li segue e li cerca con amore instancabile, come se Lui non potesse essere felice senza di loro”.

Secondo il porporato, “questo è nella sostanza, l’umile e, allo stesso tempo, grandioso messaggio che Madre Speranza ha portato all’umanità”. Ed ha aggiunto: “In un’epoca storica segnata dall’odio ideologico e dalla violenza, dallo sterminio pianificato di milioni di persone innocenti e dal disprezzo per la dignità umana; in un’epoca, qual è quella attuale, in cui gli uomini si allontanano sempre più dalla pratica religiosa e vivono come se Dio non esistesse, Madre Speranza diventa segno profetico di annuncio e di testimonianza che Dio ci ama, ama tutti, ama e rispetta l’intera umanità, senza eccezioni”.

Presente alla beatificazione anche il prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, il cardinale Angelo Amato, il quale ha spiegato che per Madre Speranza l’importante era “fare la volontà di Dio, affidarsi alla sua provvidenza, amare il Crocifisso, simbolo dell'amore misericordioso”. Grazie a questa fede "sconfinata", la religiosa ha attraversato “le oscure gallerie del male, dell'incomprensione e dell'umiliazione, uscendo purificata e rafforzata nei suoi propositi”.

Intervenuta anche la presidente della regione Umbria, Catiuscia Marini, la quale ha indicato Madre Speranza come“espressione della spiritualità cristiana che scelse la nostra terra per fondare la sua comunità, radicandosi in Umbria sia dal punto di vista religioso, che sociale”.

“La storia vissuta da Madre Speranza in Umbria - ha soggiunto - sia nella sua testimonianza cristiana, sia nell’impegno sociale svolto nella nostra regione e nel mondo, la eleva alla spiritualità della terra umbra, quella di Benedetto da Norcia, Francesco di Assisi, Rita da Cascia, Chiara, Angela da Foligno”.

La salma di Madre Speranza riposa nel Santuario di Collevalenza che lei stessa ha fatto costruire. Alla cerimonia per la Beatificazione di ieri, erano presenti anche gli vescovi e gli arcivescovi dell’Umbria, numerosi sacerdoti, oltre a rappresentanze, ecclesiastiche e laiche, provenienti da Spagna, Germania, Romania, Filippine, Messico e Brasile. Paesi in cui sono presenti le due congregazioni fondate dalla Beata.

domenica 11 maggio 2014

La forza della preghiera



Anche il credente che abbia poca dimestichezza con la preghiera, come il sottoscritto, ha in più occasioni la consapevolezza di cosa significhi nella vita di ogni giorno ritagliarsi qualche momento in cui ci si astrae dalla routine quotidiana, e, messi da parte il dormire, il mangiare, il lavorare, il begare… si cerca un contatto con Dio: cioè un attimo di pace, di serenità spirituale, nel quale le passioni si acquietano, i pensieri si elevano, lo sguardo, solitamente contratto e raggomitolato, si estende. Pregare significa accedere all’Origine e al Fine del nostro Essere, contemplare il mistero dell’Incarnazione di Dio, e così mettere a fuoco ciò che è importante e ciò che non lo è. Sei iroso? Nella preghiera trovi la calma e la quiete, una comprensione superiore dei fatti, grazie alla quale l’ira di prima appare inutile e cattiva. Sei in preda allo sconforto? La preghiera rinforza l’anima prostrata, come un bagno freddo che ritempra il corpo e lo rende tonico e forte. Sei in preda alla superbia? La preghiera ti rimette al tuo posto: sei creatura, non Dio, ma creatura amata, il cui unico bisogno non è la fama, l’onore, il potere, ma il Creatore, che è infinitamente di più di tutte le cose create e di tutte le aspirazioni mondane. Soprattutto la preghiera costante permette alla vita dell’uomo di non essere in balia delle onde, delle circostanze, delle situazioni contingenti e sempre cangianti. L’uomo di preghiera, per quanto possibile umanamente, sta, dum volvitur orbis, mentre tutto gira, cambia, muta.
A differenza del pagano, che pregava per ottenere qualcosa, il cristiano anzitutto dovrebbe ringraziare Dio di ciò che ha e lodarlo per i suoi doni; poi, certo, la preghiera è anche richiesta, persino di beni terreni, di aiuti concreti; ma soprattutto richiesta, spesso difficile, di saper vivere ciò che tocca vivere; di sapere affrontare, ciò che non si vorrebbe affrontare; di saper essere, ciò che si fatica ad essere; di saper  portare ciò che non si vorrebbe portare… Per questo la preghiera cristiana non è fuga, come vorrebbero alcuni, ma, al contrario, coinvolgimento pieno, alla luce dell’Incarnazione.
Madre Teresa di Calcutta, esempio a noi cronologicamente vicino di questa forza della preghiera, era una donnina piccola e curva, in mezzo alle continue tempeste del mondo. Perché le sue suore, con lei, le affrontassero con la forza sufficiente, aveva messo come regola anche un’ora di adorazione davanti al Santissimo ogni sera. Insegnando così alle sue suore che è nella vita contemplativa che si trova la forza per affrontare cristianamente la vita attiva. Ad un visitatore che le chiedeva: “Non le pare troppo lungo questo tempo dedicato alla preghiera?”. No, rispose, perché “senza questo amore personale a Cristo, la nostra vita sarebbe impossibile”.
Ebbene, madre Teresa riassumeva così il suo pensiero: “Il frutto del silenzio è la preghiera / Il frutto della preghiera è la fede / Il frutto della fede è l’amore / Il frutto dell’amore è il servizio / Il frutto del servizio è la pace”. Dal silenzio, condizione prima della preghiera, ad una pace nutrita di fiducia, di amore, di servizio agli altri.
Un premio Nobel per la medicina come Alexis Carrel, nella prima metà del Novecento scrisse un libretto di poche pagine, intitolato “La preghiera”, nato anzitutto dall’osservazione dei malati che andavano a Lourdes, o di quelli che tornavano da quella cittadina francese, anche senza aver ottenuto alcuna guarigione fisica. Osservando quelle persone deboli e prostrate nel corpo, ma forti nello spirito, che non rimanevano schiacciate dalle contingenze, ma si elevavano al di sopra di esse, Carrel comprese che la forza della preghiera sta nel suo corrispondere ad un bisogno dell’animo umano: come il corpo ha bisogno di ossigeno e di cibo, così l’anima (e di conseguenza anche il corpo, che è ad essa unito) ha bisogno della preghiera.
Scriveva Carrel: “Anche quando è di scarso valore e consiste, soprattutto, nella recitazione macchinale di formule, la preghiera esercita un effetto sul comportamento. Essa fortifica, insieme, il senso del sacro e il senso morale. I luoghi dove si prega si distinguono per una certa persistenza del sentimento del dovere e della responsabilità, per minori gelosie e iniquità, per qualche bontà verso il prossimo. Sembra dimostrato che, a parità di sviluppo intellettuale, il carattere e il valore morale sono più elevati negli individui che pregano, anche poco, piuttosto che in coloro che non pregano mai. Quando la preghiera è abituale e veramente fervente, la sua influenza diventa evidentissima. La si può paragonare a quella di una ghiandola a secrezione interna, come, ad esempio, la tiroide e la ghiandola surrenale. Tale influenza consiste in una specie di trasformazione mentale ed organica, questo mutamento avviene progressivamente. Si direbbe che nella profondità della coscienza si accenda una fiamma. L’uomo si vede tale quale è. Scopre il suo egoismo, la sua cupidigia, i suoi errori di giudizio, il suo orgoglio…”.
da: Il Foglio, 8/5/2014

giovedì 8 maggio 2014

IL CORAGGIO DI UNA MADRE "Non posso odiare chi ha sparato contro mio figlio"

Antonella Leardi è la mamma di Ciro Esposito, il ragazzo napoletano ferito gravemente sabato scorso, a Roma, con un colpo di pistola, prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina: "È stato l'odio a portare a questa tragedia, è l'odio a far sì che queste cose avvengano. Se cedessi all'odio, non cambierebbe mai nulla... senza la fede nel Signore non avrei potuto sopportare tutto questo, non avrei avuto la forza di parlare"
Andrea De Caro

“Ciro è nelle mani del Signore. È ancora gravissimo. Durante la notte è stato sottoposto a una nuova operazione. Gli sono stati asportati due pezzetti di colon ed è stato necessario inserire due by-pass”. Queste le parole di Antonella Leardi, madre di Ciro Esposito, il ragazzo napoletano ferito gravemente sabato scorso, a Roma, con un colpo di pistola, prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Purtroppo la situazione clinica di suo figlio si è aggravata ulteriormente e Ciro continua la sua lotta tra la vita e la morte al Policlinico Gemelli di Roma, dove martedì notte è stato operato per il sopraggiungere di una setticemia. Attorno a lui l’affetto dei suoi cari, del padre Giovanni, dei fratelli Pasquale e Michele, dei tanti tifosi accorsi, senza distinzione di squadra, e l’incredibile forza di sua madre che con la sua compostezza, le sue parole sta dando un esempio di dignità, di coraggio e di fede.

La forza della fede. “È la fede – racconta Antonella - a darmi la forza di parlare, di affrontare tutto questo. Sono addolorata, affranta, stanca, ma la fede mi sostiene, mi dà la forza di andare avanti e di perdonare chi ha sparato a mio figlio. Non posso odiarlo, non devo e non voglio. È stato l’odio a portare a questa tragedia, è l’odio a far sì che queste cose avvengano. Se cedessi all’odio, non cambierebbe mai nulla. Invece io voglio che quello che è successo a mio figlio, alla mia famiglia, non accada mai più a nessuno. Per questo lo sto facendo e senza la fede nel Signore non avrei potuto sopportare tutto questo, non avrei avuto la forza di parlare”. 

Un dramma immane.
 Frasi pesanti come macigni che hanno colpito tutti per l’enorme forza che portano con sé. Parole che sembrano in antitesi con chi si trova a vivere un dramma inimmaginabile che solo per puro caso non si è trasformato in tragedia. Un figlio partito di buon mattino in macchina con altri amici alla volta della Capitale per assistere alla finale del suo Napoli e che poche ore dopo è riverso a terra, per strada, colpito da un colpo di pistola. E ora lotta tra la vita e la morte per una semplice partita di calcio. Un dramma immane che avrebbe scosso chiunque, che avrebbe potuto mostrare il lato peggiore di ognuno, ma non di Antonella Leardi. 

La fede è tutto.
 Lei no. Lei, nonostante l’immenso dolore per le condizioni del figlio, ha reagito con grande coraggio e con una compostezza che ha spiazzato tutti. Ha dato e sta dando a tutti una lezione di vita e di fede. Perché solo con la fede si possono superare momenti drammatici come quelli che hanno colpito la famiglia Esposito. Una famiglia unita che si è stretta attorno a Ciro affidandosi all’unico strumento valido in queste situazioni: la preghiera. “Abbiamo fatto una riunione tra noi familiari - prosegue la signora Leardi - e ci siamo detti: a che serve urlare e disperarsi? Potrebbe essere utile per le condizioni di Ciro? Assolutamente no. Allora basta piangere. In questo momento possiamo solo pregare e affidarci al Signore. Il nostro Ciro è nelle sue mani e lui ci darà la forza di andare avanti e affrontare questa situazione. La fede è tutto”.

Fonte: agensir

mercoledì 30 aprile 2014

NON SOLO PAROLE NUOVE La Chiesa di Francesco raccontata dal "suo" teologo


Conversazione tra il vaticanista Paolo Rodari e monsignor Víctor Manuel Fernández, nel volume "Il progetto di Francesco. Dove vuole portare la Chiesa". Teologo e rettore della Pontificia Università Cattolica argentina di Buenos Aires, creato arcivescovo da Papa Francesco, è stato uno dei più stretti collaboratori dell’allora cardinale Bergoglio nella stesura, nel 2007, del documento di Aparecida
Giovanna Pasqualin Traversa


Che il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” avrebbe portato una ventata nuova nella Chiesa si era intuito subito, fin dalla sua prima apparizione sulla Loggia delle benedizioni, la sera del 13 marzo dello scorso anno davanti ad una folla bagnata. A sorpresa, come l’improvvisa e provvidenziale interruzione della pioggerellina insistente che, complice la notizia della fumata bianca, aveva mandato in tilt il traffico di Roma e costretto a lunghe scarpinate verso piazza san Pietro. Ombrelli chiusi dunque, distanza ridotta tra le persone, quell’atmosfera sospesa che precede un grande evento, in mezzo a chi fino a poco prima azzardava pronostici, non ultimo quello del gruppetto di ragazzi accanto a noi, certi che il nuovo Papa sarebbe stato argentino come quel Messi, autore, la sera prima, di una memorabile doppietta contro il Milan nel ritorno degli ottavi di Champions League. Un modo informale, inedito per immaginare un Papa, ma rivelatosi con il senno di poi non così lontano dalla realtà.
La sensazione è al tempo stesso di rinnovamento, anzitutto spirituale e fondato sulla conversione del cuore, e di continuità, ma da un diverso angolo prospettico, quello appunto della “fine del mondo”, della “periferia” perché, spiega lo stesso Papa Francesco, la realtà si percepisce “meglio dalla periferia piuttosto che dal centro”. Una Chiesa dunque che esce da se stessa, non chiusa o autoreferenziale, una Chiesa che abbraccia e non esclude; missionaria e “ospedale da campo”, “povera e per i poveri”, “samaritana”. Ma non dovrebbe essere così da sempre? E le periferie non erano forse amate anche da Gesù che proprio in una di esse decise addirittura di nascere? Quale, allora, la novità del Pontefice, e dove Francesco sta portando e porterà la Chiesa? A cercare le risposte a domande che tutti si stanno ponendo da mesi è Paolo Rodari, vaticanista del quotidiano “Repubblica”, dando voce a monsignor Víctor Manuel Fernández, teologo e rettore della Pontificia Università cattolica argentina di Buenos Aires, creato arcivescovo da Papa Francesco in una delle sue primissime nomine episcopali, e uno dei più stretti collaboratori dell’allora cardinale Bergoglio nella stesura, nel 2007, del documento di Aparecida. Dalla conversazione tra i due nasce il volume “Il progetto di Francesco. Dove vuole portare la Chiesa” (ed. Emi 2014), sviluppatosi intorno all’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, autentico programma di pontificato. 
Le persone cambiano quando si sentono amate; per questo, secondo il Pontefice, la Chiesa deve annunciare anzitutto il “cuore” del Vangelo: l’amore e la misericordia del Padre, quell’essenziale che attrae perché risponde alle esigenze più profonde dell’uomo e consente la successiva ricezione, al suo interno, di precetti e principi morali. Sano realismo che fa gli fa rilanciare la “gerarchia nelle verità” affermata da San Tommaso e riproposta dal Concilio, e si traduce in opzione per il positivo rispetto al negativo: è preferibile, ad esempio, parlare della bellezza del matrimonio e dell’armonia creata dall’alleanza uomo-donna che non tuonare contro le nozze gay. Nell’affermazione dei cosiddetti principi “non negoziabili” il Papa chiede insomma stile, proporzioni e accenti diversi. E proporzione, chiarisce mons. Fernández, “non è mutilazione” del messaggio evangelico. Puntualizzazione oggi necessaria di fronte a chi, “sfigurando l'insegnamento di Benedetto XVI”, ha sostenuto che da quei princìpi dipendesse tutto l'insegnamento della Chiesa, deformando così il volto del cristianesimo. Per questo sono ingiusti gli attacchi e le critiche più o meno velate che oggi Francesco riceve da taluni settori del mondo cattolico e non, e da “fanatici” che finiscono per “convertire alcuni princìpi in una battaglia permanente”. Sui temi etici, in particolare la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, il Pontefice è “molto categorico” ma altrettanto convinto, come scrive nell’“Evangelii Gaudium”, che ogni verità si comprenda meglio “se la si mette in relazione con l’armoniosa totalità del messaggio cristiano” in cui tutte le verità “si illuminano reciprocamente”. E il cuore della fede è sempre e solo il kerygma. 
Papa Francesco è uomo che tende sempre la mano e, coerente con la sua idea di “cultura dell’incontro”, nella riforma della Curia romana sembra optare per un processo “gentile”, senza imposizioni dall’alto. Per alcuni temi “sensibili” ha chiesto che vengano discussi e approfonditi all’interno di specifici Sinodi. Uno stile, anch’esso, che non gli risparmia riserve e critiche, osserva mons. Fernández, da chi non riesce a cogliere lo spirito di fede e carità che lo sottende e si arrocca su un presunto “onore della Chiesa” da preservare. Ma Francesco procede sicuro: i suoi gesti, le sue parole e azioni, che tanta eco suscitano in tutto il mondo e a volte fanno discutere, sono quelli di chi non si perde in discussioni oziose ma ha ben chiaro davanti a sé l’obiettivo, con la pazienza e i tempi necessari per conseguirlo.
Fonte:agensir