lunedì 31 marzo 2014

Identità italiana. Legge 194 e obiezione di coscienza


Giuseppe Lovato

Grande rilievo è stato dato dai media al recente documento di condanna in cui il Comitato europeo dei servizi sociali, organismo del Consiglio d’Europa, afferma che l’Italia, a causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, vìola i diritti delle donne che vogliono avvalersi della legge 194/1978 sull’interruzione di gravidanza. L’articolo 9 della legge prevede appunto l’obiezione di coscienza da parte di singoli componenti il “personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie”, diritto riconosciuto e ribadito anche dall’articolo 22 del Codice deontologico dei medici del 2006. Ma lo stesso articolo 9 della legge 194 al terzultimo comma afferma che “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste […] e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti […] La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”.
Evidentemente la percentuale di “personale sanitario” obiettore, 36 anni or sono, era tale da permettere di rendere operativa e realmente applicabile la legge pur nel rispetto della coscienza dei singoli. Ma con gli attuali livelli di obiezione (si parla perfino dell’85% del personale sanitario, anche se i numeri andrebbero sempre verificati: ma non è il numero esatto che cambia la sostanza del problema) abbiamo una legge dello Stato che, pur essendo pienamente in vigore, è diventata sostanzialmente inapplicabile. Con tutta una serie di conseguenze: dalla discriminazione fra chi può permettersi di abortire all’estero e chi no, fino all’aumento della piaga degli aborti clandestini, per combattere i quali questa legge fu approvata. Le leggi, di solito, vengono abrogate dal potere legislativo oppure attraverso l’istituto del referendum; ma per la legge 194 esiste una terza via, molto italiana: l’abrogazione (di fatto) per impossibilità di applicazione, con potere abrogante nelle mani di una specifica categoria di cittadini, gli obiettori. Un fatto aberrante e inaccettabile al quale uno Stato con un minimo di serietà non può non porre rimedio.
Quanto agli obiettori, probabilmente le motivazioni etico-culturali che inducono all’obiezione di coscienza sono le più varie, ma è indubbio che un grande peso, anche quantitativo, hanno quelle di carattere religioso. Alcuni anni or sono (“Il Sole 24 Ore-Domenica”, 13 settembre 2009) il cardinale Scola scriveva che quando su beni specifici fosse “tecnicamente impossibile” un compromesso nobile su principi sostanziali, “i cristiani dovranno fare ricorso all’obiezione di coscienza”. Tralasciamo l’uso della forma verbale “dovranno” parlando di coscienza, argomento che riguarda piuttosto la concezione gerarchica dei fedeli-sudditi; e tralasciamo qui anche il tema di quali siano i principi sostanziali per i quali sia “tecnicamente impossibile” un compromesso politico nel senso più alto e nobile del termine. Basterà per questo ricordare che il nuovo arcivescovo di Montevideo monsignor Sturla sulla legalizzazione dell’aborto riconosce che una legge dello Stato va rispettata. È comunque indubbio che la coscienza dei singoli, oltre a dover affrontare e cercar di risolvere il fondamentale problema della distinzione fra reato e peccato, deve attendersi un rispetto e una salvaguardia assoluti.
Ma l’obiezione di coscienza comporta scelte non compromissorie: il “personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie” non può contestare con una mano la struttura (e la sua norma giuridica) dalla quale con l’altra mano ritira lo stipendio o il vantaggio economico della convenzione con il SSN. Esiste – ed è un valore etico che chi si richiama continuamente all’etica non può dimenticare – un dovere di lealtà nei confronti della struttura (e delle sue norme) di cui in qualche modo si è dipendenti o comunque partecipi: se il conflitto di coscienza è grave e insanabile, si esca dalla struttura contestata e ci si giochino le proprie capacità professionali nel libero mercato. In altre parole, è troppo comodo fare obiezione contro lo Stato e le sue leggi continuando a goderne il beneficio economico. Rinuncino gli obiettori all’esercizio di “diritti legittimamente acquisiti” (Gaudium et spes, n. 76) liberando in tal modo la propria coscienza, se ha un qualche senso, per loro come per tutti, meditare le parole di papa Francesco in santa Marta (11.11.2013) sulla “doppia vita” del cristiano.

Fonte: rivistailmulino

La nota. Il manager, il precario e il rancore che cresce


Bruno Simili, 31 marzo 2014

Da quanti anni sentiamo parlare di questione giovanile? Tutti i dati di cui disponiamo indicano che essere giovani nel nostro Paese è sempre più complicato. La difficoltà di trovare un’occupazione che premi un determinato percorso di studi è stata via via sostituita dalla difficoltà di trovare un lavoro stabile tout court, anche per via della concorrenza che viene dall’immigrazione. Puntare sull’ambiziosa idea di mettere su famiglia sembra in molti casi impossibile, ma nel frattempo i media, con un atteggiamento misto tra critica efficientista e simpatica comprensione mammesca, sottolineano l’alta percentuale di giovani italiani che tardano a staccarsi dalla famiglia di origine: comunque fanno, fanno male. Alcuni si lamentano di non riuscire a trovare un lavoro, ma in realtà “non si adattano”. Altri si lamentano di trovare soltanto lavori precari e malpagati, ma in realtà dovrebbero “baciarsi i gomiti” perché la crisi colpisce tutti. Per decenni i demografi hanno avvertito che l’invecchiamento della popolazione era contenuto a stento dalle nuove generazioni di immigrati. E una società sempre più vecchia a un certo punto avrebbe avuto conseguenze drammatiche.
Nel frattempo trascorrevano i decenni, e la rilevanza sociale di una popolazione anziana si tramutava poco alla volta in rilevanza politica. I sindacati dei pensionati prendevano il posto nel cuore dei partiti dei sindacati dei lavoratori, e la giusta e doverosa tutela di una serena vecchiaia diventava la prima preoccupazione per molte azioni di governo sparse sul territorio, di comune in comune. Eppure, converrebbe non scordare mai che una comunità, così come un’azienda, piccola o grande che sia, dovrebbe essere guidata da chi opera in una determinata direzione di crescita, comunque la si voglia intendere, per poi potere vedere i frutti del proprio lavoro. E non da chi, per banali ragioni di età, non potrà farlo e dunque non ha alcun interesse a investire, a rischiare del suo, a mettersi in gioco.
In questa Italia, che alla fine si è affidata al premier più giovane della sua storia, si ritrovano le contraddizioni che ne mettono in luce la fragilità. Così, mentre si discute di misure adeguate per intervenire sulla crisi del lavoro – e in particolare si cerca di trovare risposta alla disoccupazione giovanile, alta come non mai – si torna anche a parlare delle entrate degli alti dirigenti pubblici e si avanza l’ipotesi di intervenire con un piccolo prelievo forzoso sulle pensioni più alte. Di fronte alle resistenze dei più tutelati, il giovane precario che non può fare altro se non accettare la propria condizione accontentandosi di “stipendi” dai quattrocento ai mille euro circondati dall’aleatorietà, si trova un po’ “stupito” (e assai risentito). Anche perché per lui e per quelli come lui, per cui la pensione è fuori da qualsiasi orizzonte di realtà (e chi la vedrà mai?), diventa ogni giorno più complicato costruire progetti di vita. In situazioni, peraltro, dove il più delle volte non c’è crescita professionale e mancano del tutto quelle che sabato il governatore Ignazio Visco, auspicando “la sicurezza della continuità del lavoro”, ha chiamato “attività innovativa e acquisizione di competenze specifiche” (qui il testo della Relazione, da leggere e meditare).
In particolare, la difficile situazione sociale ed economica in cui molti giovani nel nostro Paese si trovano costretti a vivere stride terribilmente con i privilegi di molti, a cominciare da manager e dirigenti con stipendi spesso ingiustificati in relazione alle responsabilità effettive che il ruolo impone (e alle capacità mostrate). Ci sono situazioni di grande responsabilità, dove l’alto livello retributivo può apparire giustificato, ma solo se è accompagnato dai risultati. Ma in molti altri casi, si pensi alle settemila società controllate dai comuni, si assiste spesso a una moltiplicazione clientelare di incarichi e stipendi. Un tema questo su cui l’attenzione dovrebbe restare particolarmente alta soprattutto ora, con molte amministrazioni in scadenza e parecchi politici in uscita, anche dalle Province, in cerca di occupazione.
Tutto ciò al di là delle polemiche su qualche manager pubblico in particolare. Ad esempio, appare legittimo criticare l’operato dell’ad delle Ferrovie italiane, trattandosi di un servizio pubblico primario, e non può stupire che a un pendolare che vive ogni giorno sulla propria pelle lo stato desolante di molti treni regionali poco importi del bilancio in ordine del gruppo; anche per questo non sarebbe male se l’ex sindacalista Moretti, che si ritrova criticato in relazione al rapporto tra il proprio stipendio e l’efficienza del servizio di cui dovrebbe essere primo garante, moderasse i toni (anche in considerazione del fatto che un tetto alle retribuzione dei manager di società pubbliche ci sarebbe già). Se non altro, darebbe un segno di intelligenza e di rispetto nei confronti di tutti coloro che pagano più di altri il prezzo di una crisi pesante e di una politica inefficiente. A cominciare dai giovani. Ma forse è chiedere troppo.

Fonte: rivistailmulino

Il papa e il filosofo


Il suo nome è Alberto Methol Ferré. È a lui che Bergoglio si ispira nel giudicare il mondo e nel contrastare la nuova cultura dominante: "l'ateismo libertino".

La faccia severa del papa con Obama

di Sandro Magister

ROMA, 31 marzo 2014 – Nell'incontro che ha avuto pochi giorni fa con Barack Obama, papa Francesco non ha taciuto su ciò che divide l'amministrazione americana dalla Chiesa di quel paese, su questioni pesanti quali "i diritti alla libertà religiosa, alla vita e all'obiezione di coscienza". E l'ha fatto rimarcare nel comunicato emesso al termine del colloquio.

Jorge Mario Bergoglio non ama lo scontro diretto, pubblico, con i potenti del mondo. Lascia agire gli episcopati locali. Ma non fa velo al proprio dissenso e tiene a segnare il proprio distacco. Nelle foto degli incontri ufficiali si mette in posa con la faccia severa, a dispetto degli esagerati sorrisi del partner di turno, in questo caso il capo della massima potenza mondiale.

Né potrebbe fare diversamente, posto il giudizio radicalmente critico che papa Francesco nutre dentro di sé, riguardo agli odierni poteri mondani.

È un giudizio che egli non ha mai esplicitato in forma compiuta. L'ha fatto però balenare più volte. Ad esempio col suo frequente riferimento al diavolo come grande avversario della presenza cristiana nel mondo, che vede all'opera dietro lo schermo dei poteri politici ed economici. Oppure quando si scaglia – come nell'omelia del 18 novembre 2013 – contro il "pensiero unico" che vuole asservire a sé l'umanità intera, anche al prezzo di "sacrifici umani", con tanto di "leggi che li proteggono".

Bergoglio non è un pensatore originale. Un suo parametro letterario di riferimento, al quale non poche volte rimanda, è il romanzo apocalittico "Il padrone del mondo" di Robert Hugh Benson, un convertito d'inizio Novecento, figlio di un arcivescovo anglicano di Canterbury.

Ma all'origine del giudizio di Bergoglio sul mondo d'oggi c'è soprattutto un filosofo.

Il suo nome è Alberto Methol Ferré. Uruguaiano di Montevideo, attraversava spesso il Rio de la Plata per andare a trovare a Buenos Aires l'amico arcivescovo. È morto ottantenne nel 2009. Ma è stato ristampato in Argentina e ora anche in Italia un suo libro-intervista del 2007 che è d'importanza capitale per comprendere non solo la sua visione del mondo, ma anche quella del suo amico poi diventato papa:

> Alberto Methol Ferré, Alver Metalli, "Il papa e il filosofo", Edizioni Cantagalli, Siena, 2014, pp. 232, euro 15,00

> Alberto Methol Ferré, Alver Metalli, "El Papa y el filósofo", Edidorial Biblos, Buenos Aires, 2013

Nel presentare la prima edizione di questo libro a Buenos Aires, Bergoglio lo elogiò come un testo di "profondità metafisica". E nel 2011, nella prefazione a un altro libro di un grande amico di entrambi – Guzmán Carriquiry Lecour, uruguaiano, segretario della pontificia commissione per l'America latina, il laico di più alto grado in Vaticano – ancora Bergoglio tributò la sua riconoscenza al "geniale pensatore del Rio de la Plata" per aver messo a nudo la nuova ideologia dominante, dopo la caduta degli ateismi messianici d'ispirazione marxista.

È l'ideologia che Methol Ferrè chiamava "ateismo libertino". E che Bergoglio così descriveva:

"L'ateismo edonista e i suoi supplementi d'anima neo gnostici sono diventati cultura dominante, con proiezione e diffusione globali. Costituiscono l'atmosfera del tempo in cui viviamo, il nuovo oppio del popolo. Il 'pensiero unico', oltre a essere socialmente e politicamente totalitario, ha strutture gnostiche: non è umano, ripropone le diverse forme di razionalismo assolutista con le quali si esprime l'edonismo nichilista descritto da Methol Ferré. Domina il 'teismo nebulizzato', un teismo diffuso, senza incarnazione storica; nel migliore dei casi, creatore dell'ecumenismo massonico".

Nel libro-intervista che oggi è stato ristampato, Methol Ferré sostiene che il nuovo ateismo "ha cambiato radicalmente di figura. Non è messianico, ma libertino. Non è rivoluzionario in senso sociale, ma complice dello status quo. Non ha interesse per la giustizia, ma per tutto ciò che permette di coltivare un edonismo radicale. Non è aristocratico ma si è trasformato in un fenomeno di massa".

Ma forse l'elemento più interessante dell'analisi di Methol Ferré è nella risposta che egli dà alla sfida posta dal nuovo pensiero egemone:

"È stato così con la riforma protestante, è stato così con l'illuminismo secolare, e poi con il marxismo messianico. Un nemico lo si vince assumendo il meglio delle sue stesse intuizioni e spingendosi oltre".

E qual è a suo giudizio la verità dell'ateismo libertino?

"La verità dell'ateismo libertino è la percezione che l'esistere ha una destinazione intima di godimento, che la vita stessa è fatta per una soddisfazione. Detto in altre parole: il nucleo profondo dell'ateismo libertino è una necessità recondita di bellezza".

Certo, l'ateismo libertino "perverte" la bellezza, perché "la separa dalla verità e dal bene, e quindi dalla giustizia". Ma – ammonisce Methol Ferré – "non si può riscattare il nucleo di verità dell'ateismo libertino con un procedimento argomentativo, o dialettico; meno ancora ponendo proibizioni, lanciando allarmi, dettando regole astratte. L'ateismo libertino non è una ideologia, è una pratica. Ad una pratica occorre opporre un'altra pratica; una pratica autocosciente, beninteso, quindi intellettualmente dotata. Storicamente la Chiesa è l'unico soggetto presente sulla scena del mondo contemporaneo che può affrontare l'ateismo libertino. Per me solo la Chiesa è veramente post-moderna".

È impressionante la sintonia tra questa visione di Methol Ferré e il programma di pontificato del suo discepolo Bergoglio, col suo rifiuto "della trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza" e col suo insistere su una Chiesa capace di "far ardere il cuore", di curare ogni tipo di malattia e di ferita, di ridare felicità.

09/03/2014 - Prendersi cura di Gesù

Pescarenico. Stessa storia duecento anni dopo.


Domenica 30 Marzo 2014 | Scritto da don Marco Pozza |

A Pescarenico - «una terricciola, sulla riva sinistra dell'Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare» (A. Manzoni) – c'era il convento dei Cappuccini di Fra Cristoforo e Fra Galdino, due tra i personaggi più delicati de “I Promessi Sposi”. Da questo paesino, nelle prossimità della foce del Bione, s'allontanerà Lucia per fuggire alle mire di don Rodrigo. E sarà «Addio monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo, cime inuguali note a chi è cresciuto tra voi». Pescarenico, terra di partenze, d'orazioni e di ritorni per Renzo e Lucia. E per i loro reconditi pensieri d'amore.
Da Pescarenico, secoli dopo, riparte Lorenzo: stessa piazzetta, medesimo trasporto d'amore, identica passione. Con Giuditta, l'altra faccia gemella di Lucia: la donna del riscatto, la forza dell'amore, l'inaspettato di una risurrezione. Per anni Lorenzo ha vissuto dentro il ventre di una patria galera – il carcere Due Palazzi di Padova – e ha scontato la sua pena: la difficoltà degli inizi, la forza contagiosa del bene, l'incontro col Cristo dei Vangeli e la figura di qualche suo testimone. Eppoi il lavoro presso la Cooperativa Giotto che restituisce dignità, l'affetto che ricuce le trame sfilacciate del cuore, il desiderio d'essere uomo di sogni, d'aspirazioni e di giorni migliori. Su tutto, l'incontro con Giuditta: ci sono giorni in carcere in cui ci si addormenta con mille “perchè” cuciti addosso. Talvolta capita che al mattino si possa trovare una risposta a qualcuno di quegli interrogativi. E la risposta di Lorenzo è stata lei: l'occhio che s'incunea oltre la crosta del male e dell'illegalità, lo sguardo che sospetta la bontà dentro quella storia ferita e disillusa, l'amabile presenza di chi avverte che il cuore di chi sbaglia batte degli stessi battiti di tutti gli altri cuori dell'umanità.
Lorenzo – ch'è poi la medesima assonanza di Renzo di manzoniana memoria – ieri ha sposato Giuditta, nella chiesetta di Pescarenico (LC). Da lì Lucia partì per sfuggire alle grinfie di Rodrigo. Da lì Lorenzo ripartirà – stavolta non più solo ma in compagnia di un amore - per sfuggire per sempre alle grinfie della menzogna, del male e dei suoi mille tentacoli: «Dov'è o morte la tua vittoria, dov'è, morte, il tuo pungiglione?». Ripartirà abbracciato a lei e a coloro che in questi anni gli sono stati compagni, confidenti e maestri. E in questa ripartenza ci sta tutto il senso di una rieducazione che stavolta pare proprio riuscita: a scommettere sull'uomo sovente si resta bruciati, ma molto spesso si trova allegrezza e senso compiuto. Sopratutto quando come alleato agganci la forza straordinaria dell'amore che riesce laddove la legge e la giustizia il più delle volte fallisce: «E' un errore giudicare l'uomo come fate – scrisse Dostoevskij -. Non c'è amore in voi, ma soltanto un severo senso della giustizia; perciò siete ingiusto». La legge senza l'amore partorisce mostri, la legge imbevuta d'amore restituisce al mondo la bellezza di un uomo riconciliato con se stesso prima di tutto. Eppoi con il suo Dio e i suoi fratelli.
Era di Pescarenico anche il pesciaiolo che porterà ad Agnese e Lucia notizie del loro paese natale nell'epoca del loro rifugio a Monza. Forse da quella piazzetta partirà oggi una buon notizia anche per tanti altri uomini che nella vita hanno fallito, le cui storie hanno deragliato, la cui speranza è andata complicandosi. Il matrimonio di Lorenzo e Giuditta narrerà al mondo degli erranti che nessun uomo è mai perduto se c'è qualcuno che si china sulle sue ferite e l'aiuta a riprendersi in mano l'esistenza. E che nessuna cella è mai così distante da impedire a Dio di poterci entrare ed illuminarla col suo volto d'Artista. Magari nascosto dietro le sembianze di un'inaspettata storia d'amore.


(Gli sposi con gli amici della Cooperativa Giotto, la "famiglia" di Lorenzo nel periodo del carcere)

(da Il Mattino di Padova, 30 marzo 2014)

domenica 30 marzo 2014

Creato. Gli studiosi: urgente uno sviluppo realmente sostenibile


Per costruire un modello di sviluppo realmente sostenibile servono tre grandi trasformazioni: un nuovo sistema energetico in grado di ridurre la produzione di anidride carbonica, un’agricoltura più sostenibile e un’educazione per le nuove generazioni alla tutela del Creato. Questi, secondo Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute della Columbia University, sono i punti fondamentali per salvaguardare il pianeta. Lo studioso è intervenuto al Convegno promosso dal Pontificio Consiglio per la Famiglia e dall’associazione culturale Greenaccord “Famiglia, custodisci il Creato!”: ai partecipanti, Papa Francesco ha inviato un messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in cui ha auspicato che ''la famiglia, custode privilegiata del dono della vita, sia anche luogo fondamentale di educazione al rispetto del grande dono del Creato''.

Marina Tomarro ha intervistato Jeffrey Sachs:

R. - The world’s climate is changing, and it is changing at a very dramatic rate. …
“Il clima mondiale in questo momento sta cambiando in maniera davvero drammatica. Alcuni anni fa i governi di molti Paesi del mondo si erano messi d’accordo per prendere delle misure per abbassare la temperatura globale di 2 gradi, invece la temperatura è salita di altri 4 gradi, e si prevede che questa tendenza continuerà a peggiorare sempre di più. Io vedo segni del peggioramento del clima ovunque. Basti pensare a tempeste, uragani e inondazioni che hanno colpito molte parti del mondo, come ad esempio in Brasile e a Pechino, due zone che ho visitato recentemente. Adesso abbiamo l’opportunità di raddrizzare la situazione con il vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del dicembre 2015: non bisogna perdere questa occasione”!

D. – Secondo lei, cosa dovrebbero fare di più i governi per evitare questi disastri?

R. – Every government in the world needs a plan to shift to a safe energy system, …
In effetti, ogni governo deve mettere in azione un piano specifico per salvare il pianeta con iniziative tecniche ad hoc, in particolare la de-carbonizzazione, cioè la riduzione di anidrite carbonica da parte delle industrie. Sia gli Stati europei, ma anche la Cina, l’India, la Russia hanno parlato di queste strategie integrate che sono necessarie. Ma fino ad ora non ne esiste nessuna! 22 anni fa è stato firmato un trattato specifico proprio per impedire che ci fosse un peggioramento della produzione del CO2, ma in questo momento non esiste alcun piano d’azione al riguardo…

D. – Ci sono Paesi che stanno già lavorando per abbassare i livelli del CO2?

R. – Absolutely. Some governments are taking serious efforts in this …
Assolutamente. Ci sono dei governi che in questo momento stanno compiendo sforzi molto seri e produttivi. Ad esempio nel mio Paese, la California, dove c’è un piano per ridurre dell’80% il CO2 entro il 2015, e in Europa c’è la Danimarca, che ha varato un piano per le emissioni di CO2. Queste sono realtà virtuose da imitare, però occorrono investimenti specifici. Per questo, bisogna coinvolgere gruppi economici verso questo tipo di iniziative e quindi far nascere questo binomio tra strategia ed investimento.


Radio Vaticana

Era proprio necessaria la reliquia di padre Puglisi?

di Valentina Chinnici | 30 marzo 2014
Dal sito della pastorale della cultura dell'arcidiocesi di Palermo un insegnante riflette sulla teca del beato ucciso dalla mafia

Una reliquia di padre Puglisi: un frammento di una costola riposto in una teca ed esposto alla venerazione dei fedeli. È una forma tradizionale del culto dei santi nella Chiesa cattolica. Ma non è anche qualcosa di molto lontano rispetto a ciò che il sacerdote martire di Brancaccio è stato durante la sua vita? È la domanda che - sul sito Tuttavia, della patorale della cultura e dell'educazione dell'arcidiocesi di Palermo - si pone Valentina Chinnici in questa lettera aperta che ci sembra interessante oggi rilanciare.

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Padre Puglisi a casa mia è sempre stato una figura mitica.

Mia madre se lo era ritrovato compagno di classe, all'Istituto Magistrale De Cosmi: un ragazzino smilzo con i calzoncini corti, seduto nel banco dietro di lei.

A quel tempo mia madre portava lunghissime trecce nere, di cui andava tanto fiera, e quel compagnetto dispettoso si divertiva a tirargliele con energia, per poi assumere aria serissima e impassibile di fronte alla professoressa che non capiva perché mai la composta signorina Ales si agitasse all'improvviso nel suo primo banco.

Ci raccontava spesso mia madre di quegli occhi vivi e intelligenti, di quanto fosse bravo in matematica, aggiungendo, con sottile compiacimento, che nei temi però era più brava lei: ogni tanto, infatti, lo aiutava al punto che una volta la solita professoressa aveva mormorato: "Puglisi, Puglisi, mi pare che qui c'è lo zampino di Ales".

Passarono due anni.

All'inizio del nuovo anno scolastico, però, il secondo banco restò vuoto: Dov'è Puglisi? Mah... Dice che è entrato in seminario. Si vuole fare parrino. C'era rimasta male mia madre. In fondo le sarebbe mancato quel ragazzino sempre sorridente, con le orecchie grandi e le mani immense. Lo ritrovò, trent'anni dopo, e fu ben lieta di affidargli le sue figlie nei ritiri spirituali che teneva in giro per la Sicilia. Mi ricordo un'estate, a Romitello, quando andammo a riprendere le mie sorelle maggiori, e io nutrivo un po' d'invidia perché ero ancora troppo piccola per questi ritiri. Invidiavo le mie sorelle contente, che raccontavano di questo prete semplice e speciale, disposto a confessarti persino mentre era al volante per andare a recuperare il ritardatario di turno, se capiva che per te era urgente. Me lo ricordo ancora, nella primavera del '93, ritto in piedi sulla scalinata del sagrato della mia parrocchia, dove era venuto in visita per non so quale incarico diocesano che rivestiva. Siccome appunto, a casa nostra lui era un piccolo mito, lo guardai a lungo, emozionata e indecisa sul salutarlo. Mi venivano in mente solo frasi del tipo: Salve, sono la figlia di Noruccia Ales, la compagna a cui lei tirava le trecce al De Cosmi! Oppure: Buongiorno, sono Valentina, le mie sorelle hanno fatto dei bellissimi ritiri spirituali con lei a Romitello, anni fa.

Mi parvero frasi troppo stupide e dunque, saggiamente, tacqui. Lui però si accorse di quello sguardo fisso e lo ricambiò con un sorriso luminoso e cordiale. Scappai via a casa e riferii a mia madre di quell'incontro fortunato. Che bello, commentò. Me lo hai salutato, non è vero?

"Veramente no. Però mi ha sorriso". Ah, fece mia madre delusa. Sei sempre la solita timida.

Mi ricordai di questo episodio insignificante sei mesi dopo, quando, il 15 settembre, i boss di Brancaccio si accorsero che il piccolo parrino cominciava a diventare pericoloso, e per questo andava tolto di mezzo. Ricordo ancora la reazione incredula e straziata di mia madre, durante il telegiornale: Lo sapevo che era un santo, ma non pensavo che avrebbe avuto il coraggio del martirio. Come Gesù Cristo...

Da quel giorno padre Puglisi fu ufficialmente santo a casa mia. Mia madre incominciò a pregarlo come già faceva con papa Giovanni, che in effetti a quel tempo non era santo neanche lui, e sistemò una sua fotografia nel suo altarino personale, in camera da letto, accanto a quella di suo padre, dei suoi fratelli defunti e, appunto, all'immaginetta di papa Roncalli.

Adesso, che faccio l'insegnante di lettere, e proprio nella scuola media dove anche padre Pino fu professore di religione per qualche tempo, mi ritrovo spesso a parlare di padre Puglisi, a far vivere la sua testimonianza, il suo messaggio di legalità, di giustizia, di attenzione agli ultimi.

Non poteva dunque lasciarmi indifferente il gran fermento vissuto in questi giorni dalle parrocchie palermitane, impegnate ad accogliere proprio una reliquia di padre Pino Puglisi: si tratta di un frammento di una costola, quella più vicina al cuore, parte della quale è stata anche inviata a papa Francesco. Le scolaresche ricevono inviti a partecipare a questo evento/celebrazione, in cui si prende spunto dal passaggio della reliquia, custodita in una teca d'argento cesellato, per fare memoria della figura di Don Pino, il piccolo parroco che fece paura ai boss della sua Brancaccio.

Ora, da insegnante - e da cattolica - che ha portato con sé i propri ragazzi, molti dei quali musulmani, indù o non credenti, non posso fare a meno di domandarmi quale sia la funzione, per la Chiesa del terzo millennio, della venerazione di una reliquia. A cosa serve insomma una reliquia? A ricordare che il beato è vissuto davvero e che la sua testimonianza è autentica? Se è questo il motivo, non bastava forse la testimonianza di quanti lo hanno conosciuto e ne diffondono a tutt'oggi le parole e i gesti? Se si voleva un qualcosa di tangibile, non sarebbe bastato, per esempio, il testo della Bibbia che è stato sepolto con lui nella sua stessa bara, a dire l'amore immenso che padre Pino nutriva per le Scritture?

Era veramente necessario asportare quel frammento osseo, esporlo in una solenne urna d'argento e farlo girare per vie e parrocchie, in cortei guidati dalle confraternite? Proprio lui, Padre Puglisi, che certa mentalità devozionistica aveva combattuto, tanto che, come testimonia un amico: "Si era dovuto confrontare duramente due anni addietro quando, appena arrivato a Brancaccio, aveva dovuto controbattere alle richieste di dar vita ad una festa grande e dispendiosa in onore del santo. Lui aveva messo alla porta quegli uomini ritenendo scandaloso che in un quartiere così povero fosse possibile pensare a sperperare tanto denaro in inutili luminarie e in rumorosi fuochi pirotecnici. Modesto ed umile, padre Puglisi evitava sempre le luci dei riflettori, anche quando operava in prima fila".

In un suo celebre componimento, il poeta latino Orazio diceva di se stesso "Non omnis moriar", Non morirò del tutto. E aveva ragione, perché il suo carpe diem lo ha eternato da duemila anni molto di più che se avessimo rinvenuto una qualsiasi testimonianza tangibile della sua esistenza. Quanto più allora non morirà mai padre Puglisi, con quel suo "Me l'aspettavo" che ha toccato persino il cuore del suo assassino, a cui ha rivolto un sorriso che resterà per sempre come una reliquia.

Certo, le reliquie esistono in molte religioni, e nella Chiesa hanno una loro secolare tradizione, che rimanda all'importanza della dimensione corporea della nostra Fede nel Dio incarnato. Ma siamo certi che sia ancora imprescindibile, in una società multietnica e postmoderna, rinverdire questa tradizione medievale, che tra l'altro non è e non deve essere dirimente in un percorso di fede, se è vero che lo stesso Gesù ha rimproverato Tommaso che voleva vedere e toccare il costato ferito del Signore, proclamando beati quelli che pur non avendo visto crederanno?

È curioso constatare come l'usanza delle reliquie si trovi anche in ambito del tutto laico. A Washington, ad esempio, sono conservati i capelli del presidente omonimo, lenzuola e fazzoletti imbevuti del sangue di Lincoln e l'unghia del piede di Elvis Presley, così come celebre è il cuore del famoso compositore e pianista Fryderyk Chopin, custodito in Polonia.

Quanto a noi cattolici, che con la venerazione delle reliquie marchiamo ulteriormente la distanza dai fratelli protestanti, dobbiamo sempre vigilare perché questa antica usanza sia almeno riempita di un qualche senso forte, per far sì che una figura straordinaria come quella di padre Puglisi non sia relegata a oggetto di adorazione a scopo miracolistico e/o devozionistico. La pietà popolare è importante e merita rispetto, certamente, ma qui è in gioco la testimonianza autentica del prete di Brancaccio. Altrimenti le reliquie finiscono con lo svuotarsi di senso, e diventano merce buona per essere venduta sui siti internet, dove infatti si trova mercimonio di sedicenti reliquie di don Bosco o addirittura della Madonna e di San Giuseppe, quest'ultima alla modica cifra di 350 euro.

Vigiliamo, allora, con rispetto ma con intransigenza, perché la reliquia, quale che sia, possa essere solo e soltanto un volano, un dito puntato verso il cielo, che ci spinga a indagare, per esempio, come e perché quel piccolo parrino faceva tanta paura ai boss del suo quartiere. Cosa faceva concretamente, oltre a 'togliere i ragazzi dalla strada' come fanno migliaia di preti in tutte le periferie del mondo?

Su internet, per fortuna, si trovano anche reliquie vere, e non solo le patacche di ebay. Una per tutti, la voce viva di padre Pino che ci ricorda, con forza, che, se ognuno fa qualcosa... allora si può fare molto.

Solo così la testimonianza di padre Puglisi non sarà mai minimamente appannata.

Fonte: vinonuovo

lunedì 10 marzo 2014

Il pastore multato e l'odore del gregge


don Marco Pozza

Col mestiere più antico del mondo cucito addosso: quello d'essere pastori e condottieri d'un gregge. Nomadi per passione, a tramandarsi di generazione in generazione l'antico legame con la terra, gli armenti e le vecchie usanze d'un tempo: giorni, stagioni, tosature. I pastori e la transumanza, una specie di liturgia che nelle nostre terre profuma di antiche tradizioni, di paesi vestiti a festa al passaggio delle bestie, di uomini capaci di fiutare sempre terre nuove in cerca di erba fresca. I pastori migliori sono quelli che lambiscono i confini, che osano sulla schiena della montagna, che ardiscono condurre il gregge laddove nessuno è ancora passato. Uomini che sono oggi presenze sempre più stonate nell'epoca della pulizia, dell'igiene e dei profumi griffati d'alta moda.
E' notizia di questi giorni che ad un giovane pastore – ci piace sottolineare quell'aggettivo, simpatico imbarazzo nell'epoca della tecnologia e del virtuale – della Valle dei Mocheni, Matteo Froner, un sindaco ha appioppato una multa esemplare per aver infranto le regole col passaggio del suo gregge. Lungi dall'entrare in merito alla giustizia di quell'applicazione, risplende come un emblema quella tirata d'orecchi. Il gregge sporca, le pecore puzzano, gli armenti infangano le strade; i pastori odorano di capre, gli zoccoli rischiano di rompere l'asfalto, quei campanacci irritano la quiete pubblica. Il pastore ne soffre, quelle pecore sono la sua vita, s'addentra nel suo silenzio e varca altre terre, batte altre strade, abita altri campi. “Ci piace non essere visti” - confida quel pastore: è la discrezione di chi è consapevole della lordura di quegli animali, dell'imbarazzo della loro natura, dei disguidi che arreca. Eppure è la sua passione, la sua vita, la ragione che illumina d'immenso il suo vagare.
Lui è pastore di un gregge reale. Eppure ci sono altri pastori che volentieri s'accuserebbe di sporcare il suolo pubblico, d'infastidire il pensare collettivo: sono quei pastori – preti, educatori, scommettitori sull'umano – che non si vorrebbe far parlare, che li si vorrebbero relegati nelle terre lontane, fuori dalle strade perchè i loro greggi puzzano. Sono i condottieri di greggi di profughi e di stranieri, d'immigrati e di clochard, di rifugiati politici e di gente dall'accento foresto. E' il gregge dei carcerati, pecore la cui presenza è così fastidiosa da impedire loro a tutti i costi di battere ancora le strade di paese, di abitare le loro terre d'un tempo, di sostare qualche notte in vista di un ulteriore viaggio. L'esistenza stessa dell'uomo è una transumanza (“passare da una terra all'altra”): ci si sposta di terra in terra, di paese in paese, c'è chi varca quotidianamente una frontiera per andare a lavorare, la vita è una somma di mille passaggi. Eppur sembra quasi che certe transumanze le si voglia bloccare a tutti i costi. Che certi greggi debbano – chissà per quale motivo – essere condannati all'estinzione, relegati in terre che nessuno vede, ammantati di vergogna addosso. Pena il pubblico ludibrio d'una multa che complica il tutto.
Il giovane pastore non s'arrende, anche se “seguire le pecore sta diventando difficile (…) Non resta che passare, per quanto possibile, inosservati”. Inosservati, beffeggiati, derisi, finanche multati: ma nessun divieto sarà mai capace di staccarli dal loro gregge, dai loro uomini, dalla loro missione ch'è poi una passione divenuta uno splendido mestiere. Il cui odore – da qualcuno mal digerito – da altri è stato additato come l'emblema della fedeltà, dell'amore: “siate pastori con addosso l'odore del gregge” - raccomandò papa Francesco ai sacerdoti nell'ultimo Giovedì Santo. Gente che puzza per aver abitato in mezzo alle bestie, agli uomini, alle macerie: eppur quell'odore da qualche parte è un balsamo d'affetto, un segno d'appartenenza. D'amore.

da: Il Mattino di Padova

domenica 9 marzo 2014

"L'azzardo? Non è un gioco"


10 mila copie distribuite nei Sert della Asl di Genova per contrastare il fenomeno del gioco d'azzardo03-06-2013 di Carlo Genovese

fonte: Città Nuova

Al Galata, Museo del Mare di Genova, si è parlato di gioco d’azzardo, cioè di una emergenza sociale che investe ormai larghe fasce della società. Secondo Nando Dalla Chiesa, intervenuto al convegno, il gioco d’azzardo è un grande luogo di riciclaggio. Ci sono 41 clan mafiosi che fanno affari d’oro con il gioco d’azzardo e in Liguria la mafia è pienamente protagonista.
Da Levante a Ponente la Liguria non è risparmiata dal malaffare. A La Spezia fa affari con i videopoker, mentre nel Ponente il grosso degli affari la criminalità organizzata lo ricava dallo smaltimento dei rifiuti, dalla sanità e dalle casa da gioco. 76 mila euro è il giro d’affari fatturato, ma a questi si devono aggiungere almeno 10 miliardi di fondi occulti.
Ecco perché il Comune di Genova ha approvato recentemente un regolamento per l’apertura della sale da gioco. «Ora - dice il sindaco Doria - ci poniamo come obiettivo la cooperazione con altri comuni che si occupano di questo fenomeno, speriamo che il Parlamento presto si dia da fare in questo senso».
Di piaga sociale ha parlato il cardinal Bagnasco intervenuto alla presentazione della pubblicazione “L’azzardo? Non è un gioco” realizzato dal dipartimento di Salute mentale e dipendenze della Asl 3 di Genova, in collaborazione con la fondazione anti-usura, che opera da ormai parecchi anni sul territorio. L'azzardo - ha detto Bagnasco - come la droga e l'alcol, esprime una filosofia di vita. Non si tratta di episodi, di piccoli gesti perché esprime una concezione del vivere che è assolutamente inaccettabile, una visione che lucra su tre livelli, su tre forti debolezze: la povertà materiale, la fragilità spirituale e psicologica della gente e sulla cultura del brivido.
Coloro che si affacciano e diventano dipendenti di questa forma di droga che è l'azzardo non sono solo i poveri dal punto di vista materiale, ma anche quelli che sono fragili spiritualmente, che vogliono sperimentare e vivere il brivido. Tutti coloro che hanno responsabilità nella diffusione del gioco d'azzardo devono prendere atto che è una piaga individuale e sociale che corrompe l'anima, la mente, il modo di pensare e di vivere di giovani e adulti promettendo una vita facile, ma devastando - nei fatti - singoli e famiglie.
La coscienza generale sta maturando in questa direzione rispetto a tempo addietro e questo è un segno positivo, promettente perché prendendo sempre più coscienza del problema si possa, ognuno nel proprio ambito, intervenire in modo decisivo. L'assessore regionale alla Salute, Claudio Montaldo, ha detto: «Spero che si comincino a sospendere le autorizzazioni per l'apertura di nuove sale da gioco prima di rivisitare quelle già concesse. Questa - ha spiegato - è una misura anticrisi, volta a tutelare chi vive questo momento con maggiori difficoltà economiche o maggiore debolezza psicologica. Si deve affermare – ha concluso Montaldo - che l'azione dello Stato non può essere fatta a danno della salute e dell'equilibrio psichico delle persone. Lo Stato non può essere coautore della diffusione di una patologia sociale. È un tema di grandissimo rilievo etico e politico».
Il volume “L'azzardo? Non è un gioco” è stato stampato in 10 mila copie e verrà distribuito nei Sert della Asl, presso la Fondazione Antiusura e presso le altre associazioni che si occupano di contrastare il fenomeno del gioco d'azzardo.

È anche possibile scaricarlo dal sito internet della Asl 3.

Con Marta e con Maria

di Paola Springhetti | 08 marzo 2014 
Gesù, per le donne, è stato un liberatore. La comunità cristiana di oggi vive dentro questa libertà? Sa farsene motore? 

È arrivato da pochi giorni in libreria per l'Editrice Ave il libro di Paola Springhetti«Donna fuori dagli spot. Il diritto di essere se stesse». In questa giornata dell'8 marzo - dal capitolo conclusivo - riprendiamo un passaggio intitolato «La parola ai cattolici».
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Il cristianesimo è la religione in cui una giovane fanciulla di nome Maria può esultare perché «grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente»; in cui un'altra donna, Maria di Betania, può, contro tutte le regole del tempo, ricevere insieme alla sorella un uomo nella propria casa, ascoltarlo ed essere considerata da lui un vero interlocutore, una persona che pensa; in cui Paolo può ricordare che in Cristo non c'è più né uomo né donna.

Gesù, per le donne, è stato un liberatore. La comunità cristiana di oggi vive dentro questa libertà? Sa farsene motore? O è prigioniera di quella libertà illusoria e servile che piace a tanti?

La Chiesa ha un ruolo importante, nella nostra società, sia a livello culturale che a livello di formazione. E ha il dovere di parlare a quegli uomini di oggi che le riconoscono questo ruolo e anche a quelli che non glielo riconoscono. Sulla questione femminile ha molto da dire, ma per essere ascoltata ha bisogno di acquistare credibilità, dimostrando con la propria vita quotidiana di credere in loro e di saperle valorizzare.

La Dottrina sociale della Chiesa, infatti, ha detto molto sulla donna e soprattutto, già prima del Concilio, è stata capace di superare la fobia delle donne e del loro corpo che si era diffusa, anche tra i cristiani, soprattutto da Tertulliano in poi. Si potrebbero velocemente ricordare laPacem in terris, in cui Giovanni XXIII considera l'ingresso della donna nella vita pubblica come un elemento caratterizzante la modernità, e poi laGaudium et spes, la Laborem exercens, la Familiaris consortio e in particolare la Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II, che ha segnato un punto di non ritorno, con la sua teologia e antropologia basate sul concetto di «unità dei due». Nella comune umanità le differenze tra uomo e donna - entrambi creati a immagine di Dio - si completano a vicenda e non sono ammissibili dislivelli di dignità e di importanza.

Il concetto viene ripreso anche dalla Christifideles laici, che fa un passo avanti, invitando esplicitamente ad applicarlo anche ai laici nella Chiesa e chiedendo di affrontare urgentemente sul piano pastorale «la presenza coordinata degli uomini e delle donne perché sia più completa, armonica e ricca la partecipazione dei fedeli laici alla missione salvifica della Chiesa». E la ragione non è solo «la maggiore significatività ed efficacia dell'azione pastorale» della Chiesa stessa; né, tantomeno, il semplice dato sociologico di una convivenza umana che è naturalmente fatta di uomini e di donne. È, piuttosto, il disegno originario del Creatore che dal principio ha voluto l'essere umano proprio così, come «unità dei due»; ha voluto l'uomo e la donna come prima comunità di persone, radice di ogni altra comunità e, nello stesso tempo, come "segno" di quella comunione interpersonale d'amore che costituisce la misteriosa vita intima di Dio uno e trino».

Insomma, aprendosi a una più rilevante presenza femminile, la Chiesa non solo guadagnerebbe in "efficienza" (cioè renderebbe la propria presenza più significativa ed efficace), ma sarebbe più coerente con la propria identità, perché aderirebbe maggiormente al disegno originario del Salvatore.

In fondo, l'aveva detto già Paolo VI nel 1976: «Appare all'evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente e operante del cristianesimo in modo così rilevante, che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le virtualità».

Ancora più esplicito è stato papa Francesco, che è intervenuto più volte sul tema delle donne nella Chiesa. Ad esempio, nell'ottobre 2013, quando a un convegno sui 25 anni della Mulieris dignitatem ha detto che non esiste "il" Chiesa, ma "la" Chiesa, che «è donna, è madre» e che soffre quando vede che nella Chiesa e nelle organizzazioni ecclesiali spesso il "servizio" delle donne è ridotto a "servitù".

Due sono i pericoli, apparentemente opposti, che mortificano la donna e la sua vocazione. Uno è quello di «ridurre la maternità a un ruolo sociale, a un compito, anche se nobile, ma che di fatto mette in disparte la donna con le sue potenzialità, non la valorizza pienamente nella costruzione della comunità». L'altro è quello di «promuovere una specie di emancipazione che, per occupare gli spazi sottratti dal maschile, abbandona il femminile con i tratti preziosi che lo caratterizza».

L'invito a valorizzare le donne anche nella Chiesa, oltre che nella società, è contenuto anche nell'esortazione apostolica Evangelii gaudium, dove il Papa scrive: «Vedo con piacere come molte donne condividono responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, danno il loro contributo per l'accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi e offrono nuovi apporti alla riflessione teologica. Ma c'è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Perché "il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell'ambito lavorativo" e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali».

Non può essere un alibi, per impedire alle donne di assumere ruoli di responsabilità nella Chiesa, il fatto che il sacerdozio sia riservato agli uomini, perché la potestà sacerdotale è una funzione, non una questione di dignità, e la chiave di questa funzione non è il potere come dominio, ma «la potestà di amministrare il sacramento dell'eucaristia; da qui deriva la sua autorità». Nasce da qui una grande sfida per i pastori e per i teologi, «che potrebbero aiutare a meglio riconoscere ciò che questo implica rispetto al ruolo della donna, lì dove si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa».

Per affrontare seriamente questa sfida, però, la chiesa dovrebbe affrontare un vero cambiamento culturale... Mettendo in discussione alcune prassi forse non teorizzate, ma troppo spesso applicate.

Ad esempio, le comunità cristiane dovrebbero chiedersi perché le donne delle professioni frequentano poco le parrocchie e quale potrebbe essere il loro apporto alla vita ecclesiale. Dovrebbero affrontare le difficoltà di collaborazione su progetti ampi tra i preti (maschi) e le donne, religiose o laiche.

Dovrebbero riconoscere che esistono sia le "Marte" che le "Marie" e che entrambe hanno diritto di presenza e di parola. Dovrebbero gioire del fatto che le vocazioni femminili trovano un'espressione privilegiata nella maternità o nella consacrazione a Dio, ma si esprimono anche in molti altri modi, lavoro compreso. Dovrebbero finalmente declinare l'uguaglianza come valore e definire come ci può essere uguaglianza tra soggetti diversi, tenendo conto che «soltanto l'uguaglianza [...] può dare ai reciproci rapporti il carattere di un'autentica communio personarum». Dovrebbero affrontare il tema delle carriere ecclesiali femminili e di come condividere con le donne i poteri decisionali.

Dovrebbero soprattutto confrontarsi con la rappresentazione di Maria, un po' troppo mater dolorosa per essere presa a modello dalle nuove generazioni, che anche nella maternità cercano la felicità e la realizzazione di se stesse; un po' troppo poco sedes sapientiae per le donne che studiano, lavorano e cercano; un po' troppo remissiva per le donne che vogliono avere in mano le redini della propria vita.

Troppo spesso viene ancora riproposto un modello di femminilità idealizzato, che le donne non riescono ad accogliere e a fare proprio. Nel tema della differenza tra donna e uomo, infatti, resta irrisolta un'ambiguità: che cioè, proprio in nome di una diversità ricondotta solo alla maternità e a una maggiore capacità oblativa, le donne vengano ricacciate continuamente accanto al focolare. E che, parallelamente, troppo poco sia stato detto, al di fuori dei documenti ufficiali della Chiesa, sulle donne e sulla vita pubblica, problema considerato marginale.

Invece il credente dovrebbe essere riconoscibile anche dal suo atteggiamento nei confronti delle donne, dalla sua capacità di rispettarle e valorizzarle. Purtroppo non è così. Politici che si dicevano cristiani hanno esibito comportamenti laidi e lanciato parole offensive e troppi cattolici hanno chiuso un occhio - forse tutti e due - rimanendo in silenzio.

Insomma, c'è un lavoro "interno" da fare, perché la Chiesa possa far sentire alte le proprie parole in un contesto sociale che ha disperato bisogno di punti di riferimento. Attraverso le sue articolazioni, già fa un lavoro importante: si pensi all'impegno educativo di associazioni come l'Ucsi e l'Aiart - che lavorano l'una per tenere alto il dibattito tra i professionisti dell'informazione e l'altra per sensibilizzare gli utenti e diffondere una cultura della comunicazione - specializzate nell'ambito dei media; o a quello delle case editrici cattoliche che producono sussidi e materiali vari; a quello dei media ecclesiali, che offrono un'informazione diversa... È molto, ma non basta. Occorre rilanciare la centralità della questione femminile e vanno portate a sistema riflessioni e buone prassi per farle diventare un vero contributo a quella rivoluzione culturale che le donne aspettano.

Fonte: vinonuovo.it/

sabato 8 marzo 2014

Dopo gli anziani a Mestre un "tetto" ai padri separati


La Fondazione Carpinetum di Solidarietà cristiana non si ferma e cerca di aiutare anche i disabili, gli sposini in cerca di abitazione, parenti di ricoverati nel vicino ospedale. Una realtà nata negli anni Novanta dall'intuizione di don Armando Trevisiol e oggi curata da don Gianni Antoniozzi. Sempre sostenuta dalla generosità dei mestrini. L'intervento della regione Veneto per i non autosufficienti

da Venezia, Paolo Fusco


Oltre 220 minialloggi, costruiti da zero, da destinare ad anziani con poche risorse economiche o che si trovavano in situazioni di difficoltà dal punto di vista familiare o sociale. È l’impresa compiuta, nella terraferma veneziana, da un parroco, oggi in pensione; e proseguita oggi dalla Fondazione Carpinetum di Solidarietà cristiana, che gestisce i quattro condomini abitati da anziani e ne sta costruendo altri due, per nuove tipologie di bisognosi.

Come un piccolo borgo. L’idea risale all’inizio degli anni Novanta. Don Armando Trevisiol, allora parroco di Carpenedo, un quartiere di Mestre, vuole offrire un alloggio ad alcune decine di anziani, pienamente autonomi, con la pensione sociale e con lo sfratto in mano. Concepisce, allora, il primo “Centro don Vecchi”, dal nome di un sacerdote che è stato suo maestro nell’età giovanile. Inaugurato nel 1994, è stato costruito grazie alle grandi e piccole donazioni di un gran numero di parrocchiani, e non solo. Non essendoci un debito da ripianare, gli inquilini dello stabile non devono pagare l’affitto, ma solo le spese di condominio e le utenze personali (acqua, luce, gas, telefono e riscaldamento). Solo chi supera l’importo della pensione sociale versa un contributo di solidarietà in base al reddito, per permettere anche ai più poveri di vivere al “Don Vecchi” e per finanziare i futuri progetti di solidarietà. Una persona sola spende, comprese le utenze, tra i 150 e i 230 euro al mese; una coppia tra i 290 e i 360 euro. Un valore aggiunto è il contesto in cui l’anziano si trova a vivere: pur mantenendo la propria autonomia nell’appartamento assegnatogli, può contare su spazi comuni, per gli incontri, le attività ricreative e culturali. “L’abbiamo immaginato come un piccolo borgo in cui ci sono i servizi di un piccolo paese di una volta”, spiega don Trevisiol, che oggi abita anche lui al “Don Vecchi” e non smette di occuparsi della sua creatura.

L’idea si sviluppa. Il primo condominio ha un tale successo che don Armando pensa subito a costruirne un altro, ancora più grande: e l’iniziativa è “benedetta” da frequenti e copiose offerte di mestrini. Nel 2001 viene inaugurato, accanto al primo, il “Centro don Vecchi bis”. Segue, nel 2008, il “Centro don Vecchi ter”, nell’abitato di Marghera, e nel 2011 il “Centro don Vecchi quater” nella frazione di Campalto, tra Mestre e l’aeroporto. Ma la sfida non è finita... C’è una nuova frontiera del social housing di stampo cattolico che la Fondazione Carpinetum ritiene di dover varcare. Il prossimo centro - è l’idea di don Armando, subito sposata dal suo successore alla guida dell’ente, don Gianni Antoniazzi - dovrà rispondere alle esigenze di anziani che stanno perdendo la loro autonomia, per ritardare il più possibile il loro ingresso in casa di riposo. Si pensa così a un condominio a elevata protezione e accudienza composto da 60 minialloggi, nel quale prestino servizio otto accudienti stipendiate dalla struttura.

Per chi perde l’autonomia. La regione Veneto, riconoscendolo come progetto pilota, ha finanziato il “Don Vecchi 5” con un contributo di 2,8 milioni di euro, da restituire senza interessi in 25 anni; e pagherà una diaria giornaliera di 25 euro circa per ogni ospite, per garantire appunto l’assistenza. Gli inquilini, per l’ospitalità, verseranno così cifre comprese tra i 150 e i 230 euro al mese, a seconda del reddito. Si accederà alla nuova struttura tramite una valutazione delle condizioni di salute, compiuta da ospedali, distretti sanitari e medici di famiglia. Ma destinatari saranno soprattutto, spiega don Antoniazzi, “le persone povere, in difficoltà, quelle che nell’appartamento in cui si trovano non riescono ad avere una sufficiente attenzione e cura; quelle che hanno una pensione minima che non basta per far fronte a tutto. Invece che essere subito inserite nelle strutture ordinarie della sanità regionale, possono trovare in questa struttura il conforto di un ambiente familiare, umano, decoroso e insieme un aiuto, un sostegno che permetta loro di vivere a un prezzo accettabile, entro i limiti della loro pensione”. Il cantiere del “Centro don Vecchi 5” sta ormai per chiudere: l’inaugurazione è prevista per il 14 maggio; i primi ospiti entreranno prima dell’estate.

Non solo anziani. Proprio in questi giorni la Fondazione Carpinetum ha dato il via libera al suo sesto centro, in quella che sta diventando una cittadella della solidarietà. La novità è che non si occuperà di anziani, ma di padri separati, disabili, sposini in cerca di abitazione, parenti di ricoverati nel vicino ospedale. Il cantiere non chiuderà, dunque: per la fondazione mestrina c’è ancora molto da fare - grazie a una catena della solidarietà che sembra non finire mai, nonostante la crisi economica - nel campo dell’housing sociale.

Sacerdote nato da uno stupro, perdona il padre e lo confessa


Un sacerdote in Ecuador ha raccontato di essere stato concepito in seguito a uno stupro quando sua madre aveva 13 anni, e successivamente non solo ha perdonato suo padre, ma ne ha ascoltato la confessione.

“Avrei potuto finire in un cassonetto dei rifiuti, ma mi hanno dato la vita”, ha detto padre Luis Alfredo León Armijos, 41 anni, in un'intervista ad ACI Prensa lo scorso anno.

Il sacerdote ha raccontato come sua madre, María Eugenia Armijos, dovesse fare le pulizie in una casa di Loja, in Ecuador, per aiutare i genitori a mantenere i suoi sette fratelli. Aveva appena 13 anni quando “il padrone di casa, approfittando del fatto che era sola, abusò di lei e la mise incinta”.

La famiglia di María Eugenia la rifiutò. “Non volevano che il bambino nascesse, così la picchiarono sulla pancia e le fecero bere delle sostanze per farla abortire”, ha spiegato il sacerdote.

La ragazza decise di fuggire a Cuenca, dove diede alla luce Luis Alfredo, nato con problemi respiratori per la giovane età della madre.

Dopo un periodo di tempo, María Eugenia tornò a Loja con il bambino. “È finita sotto il controllo del suo violentatore – mio padre –, che ha riconosciuto che ero suo figlio e ha detto che si sarebbe preso cura di me”, ha detto León, “ma questo non significa che le cose tra di loro fossero sanate”.

“Hanno avuto altri tre figli, il mio rapporto con lui era distante”, ha spiegato il sacerdote.

Quando padre León aveva 16 anni è stato inviato nel Rinnovamento Carismatico. “Ho avuto il mio primo incontro con Cristo”, ha detto.

A 18 anni ha deciso di entrare nel Seminario de Loja, e a 23 è stato ordinato con il permesso speciale del vescovo per la sua giovane età.

I suoi genitori si sono separati due anni dopo, e sua madre gli ha rivelato come era stato concepito.

León ha detto di essersi reso condo che “Dio gli stava permettendo di essere sacerdote non per giudicare, ma per perdonare. Ho giudicato molto mio padre per tutto”.

Anni dopo ha ricevuto una telefonata da suo padre che doveva essere operato. “Aveva paura e mi ha detto: 'Voglio che ascolti la mia confessione'”, ha detto León.

“Gli ho detto: 'Padre, meriti il cielo, la vita eterna'. In quel momento gli occhi di mio padre si sono riempiti di lacrime”.

30 anni dopo, il padre di León ha ricevuto la Comunione.

“Puoi arrivare a conoscere la tua storia e ad odiare la tua vita”, ha confessato. “Giudicare Dio come ho fatto io. Ma ho scoperto che l'amore di Dio era stato lì a guardare attentamente la mia vita”.

“Tutto ciò che ho è una gratificazione. La vita stessa è uno splendido dono di Dio”, ha concluso.

Padre León è attualmente parroco nella parrocchia di San José a Loja, Ecuador.



[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]
 
sources: LifeSiteNews.com

PROMESSE


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PROMESSE

Occhi a lungo cercati
nell'infinito amore
racchiuso
in un solo attimo di rimpianto.
(F.M.)

venerdì 7 marzo 2014

La grande amarezza e la quaresima

Da Don Massimo Vacchetti

L’ultima benedizione. L’amen è detto con la forchetta in mano. La famiglia mi ospita per la cena e tra un “come va?” e l’altro mi ricordo che stasera danno in prima visione, “La grande bellezza”, il film che ha vinto l’Oscar. So di non avere altri impegni e così chiedo, non disponendo di una televisione a casa, di prolungare la serata. Ospite a mio agio su di un divano, con una coperta ai piedi, guardo con curiosità questo film che è sulle pagine di tutti i giornali. Domani, inizia la Quaresima – penso – “mi concedo il lusso di una serata cinema”. Ho freddo, ma il panno sulle gambe rende la cosa molto familiare, come quando a casa, da piccoli, si guardava tutti insieme la tv.

Per fortuna, c’è la pubblicità. Sono anni che non guardo un film sulle reti tradizionali. E’ comoda. Ti permette di non addormentarti e magari riuscire a fare una serie di cose che non è bene mentre guardi un film, come mandare un sms: “Sto guardando “La grande bellezza”, non ci capisco niente” o a quella successiva “Aiuto! Sempre peggio, il mistero s’infittisce”.

A mezzanotte, il film finisce. Dormono praticamente tutti in casa. Saluto imbarazzato chi mi ha ospitato e salgo in macchina con una sensazione strana. Una grande amarezza. Il protagonista, Geb Gambardella è un
uomo di sessantacinque anni, si definisce “il re dei mondani”. Attorno a lui, un mondo decadente di anziani che giocano a vivere, senza in realtà assaporare niente della vita. La femminilità prorompente di Serena Grandi è ora segno di una dirompente degrado fisico e morale. Tutto è corroso non solo l’età. C’è un marciume nei dialoghi, nei trenini delle feste che “non vanno da nessuna parte!”, nei balli che è danza, ma macabra esibizione di se stessi…La vita è un’impalcatura. Un immenso sepolcro imbiancato su cui si muovono attori che hanno come prospettiva la nostalgia “l’unico svago che ci resta per chi è diffidente verso il futuro. L’unico”. Eppure, c’è un che di autocompiacimento languido. Come dire, “la vita è un trucco, ma, in fondo va bene così”.

Lo sguardo amaro di Geb è l’ultimo fotogramma del film. Dietro di sé cumuli di polvere di una vita insignificante e fallimentare. “Sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”. Non sono solo le parole conclusive di un film che di bellezza racconta poco, se non quella di averla desiderata. “L’uomo miserabile” è la definizione della condizione di ciascuno quando fa della sua vita una caccia al tesoro, senza tesoro. “Ho cercato la grande bellezza”, ma in fondo in fondo, c’è poi una bellezza più grande del mondo?

Resiste, in mezzo allo squallore di un illusoria felicità, il sapersi amato. Un diario di una donna, rinvenuto e poi definitivamente perso per sempre, rivela a Geb di essere sempre stato amato. Peccato, non essersene accorti. Peccato non essere riuscito ad ingannare il mondo ed essersi scrollato di dosso la polvere che si accumula inesorabile su chi si lascia sedurre dal potere. Dopo una notte trascorsa con una donna di molto più giovane, Geb quasi stupito confessa: “È stato bello non fare l’amore…”. Ramona risponde “È stato bello volersi bene!”. Geb non è stato capace. Mai. Peccato accorgersene quando la vita comincia ad allontanarsi da sé. Peccato accorgersene quando il cinismo ha preso una fetta consistente di sé. Peccato non è un termine morale per indicare la trasgressione, ma la constatazione che abbracciare se stesso, come un Narciso qualunque, significa abbracciare il niente.

Neppure la Santa, figura di una donna consumata dall’età e dalla povertà che “si vive, non si racconta” (unico sprazzo di verità di un film che ammicca all’indolenza di un certo intellettualismo marxisteggiante che ha scritto e parlato dei poveri, ma senza aver incontrato i poveri e vissuto con loro!), riesce a far emergere un desiderio di bellezza. La sua salita, solitaria, lontana dagli occhi del mondo, per ascendere sino alla soglia del Mistero di Dio appare come una solitudine beata incapace di incidere sulla tristezza del mondo.
Un film cupo e deprimente che racconta l’accumulo di polvere sui volti e sui cuori delle persone rendendoli opachi e spenti. L’immersione nei piaceri e la dissolutezza nelle ricchezze, il confondere felice con facile, benessere con bene, vitalità con vita conducono allo sbriciolamento del reale. “La vita” – per dirla con un altro Oscar – non “è bella”, smorzata nella sua promessa di bellezza dall’assenza di verità e di amore. Non è la condizione di un certo mondo soltanto, di una bene società che odora di Chanel e puzza di marcio. No.
Il mondo sono io. Il film racconta l’amarezza di chi vive cercando “la ricompensa degli uomini”. Il Vangelo delle Ceneri è la miglior recensione al film di Sorrentino. Si ha come l’impressione che i protagonisti recitino una parte da schiavi. Servi di un potere e di un dittatore che si chiama “io”. “Ho cercato la grande bellezza e non l’ho trovata”. Peccato. Perché c’è. Solo bisogna, ogni tanto, anche una volta all’anno, spargersi delle ceneri sul capo.
Ci libera dalla polvere che si è annidata negli angoli più nascosti del nostro vivere. Francesco d’Assisi assomiglia a Geb Bambardella. Lo chiamavano il “re delle feste di Assisi”. Anche Francesco cercava la bellezza. Tra le cose del mondo, perché in fondo e non solo lì, ma anche nella superficie, il mondo è bello. Eppure, niente più lo soddisfaceva più. Ha continuato a cercare e a mendicare. Lo ha fatto tutta la vita. In una diroccata chiesetta fuori Assisi, in località San Damiano, Francesco, il cui sguardo, al tempo doveva assomigliare a quello inespressivo dei protagonisti del film, l’ha incontrata.
Una Bellezza più grande e coinvolgente di tutte. Una tal bellezza da innamorarsi e per la quale spogliarsi nudo per abbracciarla e unirsi a Lei. Non una nudità del corpo, ma di sè. Spogliato, Francesco può unirsi a Cristo Crocifisso, Divina Bellezza, amante, persino, di ogni mia bruttezza. Vorrei in questa Quaresima dedicarmi a Lui, lasciando da parte l’amarezza che film a parte, registro ogni qual volta mi dedico al mio ombelico. Non voglio la polvere del mondo. Voglio la cenere che mi ricorda che sono amato. Non su un diario perduto, su pagine che nessuno legge, ma nel Libro della Vita.