domenica 9 marzo 2014

Con Marta e con Maria

di Paola Springhetti | 08 marzo 2014 
Gesù, per le donne, è stato un liberatore. La comunità cristiana di oggi vive dentro questa libertà? Sa farsene motore? 

È arrivato da pochi giorni in libreria per l'Editrice Ave il libro di Paola Springhetti«Donna fuori dagli spot. Il diritto di essere se stesse». In questa giornata dell'8 marzo - dal capitolo conclusivo - riprendiamo un passaggio intitolato «La parola ai cattolici».
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Il cristianesimo è la religione in cui una giovane fanciulla di nome Maria può esultare perché «grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente»; in cui un'altra donna, Maria di Betania, può, contro tutte le regole del tempo, ricevere insieme alla sorella un uomo nella propria casa, ascoltarlo ed essere considerata da lui un vero interlocutore, una persona che pensa; in cui Paolo può ricordare che in Cristo non c'è più né uomo né donna.

Gesù, per le donne, è stato un liberatore. La comunità cristiana di oggi vive dentro questa libertà? Sa farsene motore? O è prigioniera di quella libertà illusoria e servile che piace a tanti?

La Chiesa ha un ruolo importante, nella nostra società, sia a livello culturale che a livello di formazione. E ha il dovere di parlare a quegli uomini di oggi che le riconoscono questo ruolo e anche a quelli che non glielo riconoscono. Sulla questione femminile ha molto da dire, ma per essere ascoltata ha bisogno di acquistare credibilità, dimostrando con la propria vita quotidiana di credere in loro e di saperle valorizzare.

La Dottrina sociale della Chiesa, infatti, ha detto molto sulla donna e soprattutto, già prima del Concilio, è stata capace di superare la fobia delle donne e del loro corpo che si era diffusa, anche tra i cristiani, soprattutto da Tertulliano in poi. Si potrebbero velocemente ricordare laPacem in terris, in cui Giovanni XXIII considera l'ingresso della donna nella vita pubblica come un elemento caratterizzante la modernità, e poi laGaudium et spes, la Laborem exercens, la Familiaris consortio e in particolare la Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II, che ha segnato un punto di non ritorno, con la sua teologia e antropologia basate sul concetto di «unità dei due». Nella comune umanità le differenze tra uomo e donna - entrambi creati a immagine di Dio - si completano a vicenda e non sono ammissibili dislivelli di dignità e di importanza.

Il concetto viene ripreso anche dalla Christifideles laici, che fa un passo avanti, invitando esplicitamente ad applicarlo anche ai laici nella Chiesa e chiedendo di affrontare urgentemente sul piano pastorale «la presenza coordinata degli uomini e delle donne perché sia più completa, armonica e ricca la partecipazione dei fedeli laici alla missione salvifica della Chiesa». E la ragione non è solo «la maggiore significatività ed efficacia dell'azione pastorale» della Chiesa stessa; né, tantomeno, il semplice dato sociologico di una convivenza umana che è naturalmente fatta di uomini e di donne. È, piuttosto, il disegno originario del Creatore che dal principio ha voluto l'essere umano proprio così, come «unità dei due»; ha voluto l'uomo e la donna come prima comunità di persone, radice di ogni altra comunità e, nello stesso tempo, come "segno" di quella comunione interpersonale d'amore che costituisce la misteriosa vita intima di Dio uno e trino».

Insomma, aprendosi a una più rilevante presenza femminile, la Chiesa non solo guadagnerebbe in "efficienza" (cioè renderebbe la propria presenza più significativa ed efficace), ma sarebbe più coerente con la propria identità, perché aderirebbe maggiormente al disegno originario del Salvatore.

In fondo, l'aveva detto già Paolo VI nel 1976: «Appare all'evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente e operante del cristianesimo in modo così rilevante, che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le virtualità».

Ancora più esplicito è stato papa Francesco, che è intervenuto più volte sul tema delle donne nella Chiesa. Ad esempio, nell'ottobre 2013, quando a un convegno sui 25 anni della Mulieris dignitatem ha detto che non esiste "il" Chiesa, ma "la" Chiesa, che «è donna, è madre» e che soffre quando vede che nella Chiesa e nelle organizzazioni ecclesiali spesso il "servizio" delle donne è ridotto a "servitù".

Due sono i pericoli, apparentemente opposti, che mortificano la donna e la sua vocazione. Uno è quello di «ridurre la maternità a un ruolo sociale, a un compito, anche se nobile, ma che di fatto mette in disparte la donna con le sue potenzialità, non la valorizza pienamente nella costruzione della comunità». L'altro è quello di «promuovere una specie di emancipazione che, per occupare gli spazi sottratti dal maschile, abbandona il femminile con i tratti preziosi che lo caratterizza».

L'invito a valorizzare le donne anche nella Chiesa, oltre che nella società, è contenuto anche nell'esortazione apostolica Evangelii gaudium, dove il Papa scrive: «Vedo con piacere come molte donne condividono responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, danno il loro contributo per l'accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi e offrono nuovi apporti alla riflessione teologica. Ma c'è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Perché "il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell'ambito lavorativo" e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali».

Non può essere un alibi, per impedire alle donne di assumere ruoli di responsabilità nella Chiesa, il fatto che il sacerdozio sia riservato agli uomini, perché la potestà sacerdotale è una funzione, non una questione di dignità, e la chiave di questa funzione non è il potere come dominio, ma «la potestà di amministrare il sacramento dell'eucaristia; da qui deriva la sua autorità». Nasce da qui una grande sfida per i pastori e per i teologi, «che potrebbero aiutare a meglio riconoscere ciò che questo implica rispetto al ruolo della donna, lì dove si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa».

Per affrontare seriamente questa sfida, però, la chiesa dovrebbe affrontare un vero cambiamento culturale... Mettendo in discussione alcune prassi forse non teorizzate, ma troppo spesso applicate.

Ad esempio, le comunità cristiane dovrebbero chiedersi perché le donne delle professioni frequentano poco le parrocchie e quale potrebbe essere il loro apporto alla vita ecclesiale. Dovrebbero affrontare le difficoltà di collaborazione su progetti ampi tra i preti (maschi) e le donne, religiose o laiche.

Dovrebbero riconoscere che esistono sia le "Marte" che le "Marie" e che entrambe hanno diritto di presenza e di parola. Dovrebbero gioire del fatto che le vocazioni femminili trovano un'espressione privilegiata nella maternità o nella consacrazione a Dio, ma si esprimono anche in molti altri modi, lavoro compreso. Dovrebbero finalmente declinare l'uguaglianza come valore e definire come ci può essere uguaglianza tra soggetti diversi, tenendo conto che «soltanto l'uguaglianza [...] può dare ai reciproci rapporti il carattere di un'autentica communio personarum». Dovrebbero affrontare il tema delle carriere ecclesiali femminili e di come condividere con le donne i poteri decisionali.

Dovrebbero soprattutto confrontarsi con la rappresentazione di Maria, un po' troppo mater dolorosa per essere presa a modello dalle nuove generazioni, che anche nella maternità cercano la felicità e la realizzazione di se stesse; un po' troppo poco sedes sapientiae per le donne che studiano, lavorano e cercano; un po' troppo remissiva per le donne che vogliono avere in mano le redini della propria vita.

Troppo spesso viene ancora riproposto un modello di femminilità idealizzato, che le donne non riescono ad accogliere e a fare proprio. Nel tema della differenza tra donna e uomo, infatti, resta irrisolta un'ambiguità: che cioè, proprio in nome di una diversità ricondotta solo alla maternità e a una maggiore capacità oblativa, le donne vengano ricacciate continuamente accanto al focolare. E che, parallelamente, troppo poco sia stato detto, al di fuori dei documenti ufficiali della Chiesa, sulle donne e sulla vita pubblica, problema considerato marginale.

Invece il credente dovrebbe essere riconoscibile anche dal suo atteggiamento nei confronti delle donne, dalla sua capacità di rispettarle e valorizzarle. Purtroppo non è così. Politici che si dicevano cristiani hanno esibito comportamenti laidi e lanciato parole offensive e troppi cattolici hanno chiuso un occhio - forse tutti e due - rimanendo in silenzio.

Insomma, c'è un lavoro "interno" da fare, perché la Chiesa possa far sentire alte le proprie parole in un contesto sociale che ha disperato bisogno di punti di riferimento. Attraverso le sue articolazioni, già fa un lavoro importante: si pensi all'impegno educativo di associazioni come l'Ucsi e l'Aiart - che lavorano l'una per tenere alto il dibattito tra i professionisti dell'informazione e l'altra per sensibilizzare gli utenti e diffondere una cultura della comunicazione - specializzate nell'ambito dei media; o a quello delle case editrici cattoliche che producono sussidi e materiali vari; a quello dei media ecclesiali, che offrono un'informazione diversa... È molto, ma non basta. Occorre rilanciare la centralità della questione femminile e vanno portate a sistema riflessioni e buone prassi per farle diventare un vero contributo a quella rivoluzione culturale che le donne aspettano.

Fonte: vinonuovo.it/

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