venerdì 7 marzo 2014

La grande amarezza e la quaresima

Da Don Massimo Vacchetti

L’ultima benedizione. L’amen è detto con la forchetta in mano. La famiglia mi ospita per la cena e tra un “come va?” e l’altro mi ricordo che stasera danno in prima visione, “La grande bellezza”, il film che ha vinto l’Oscar. So di non avere altri impegni e così chiedo, non disponendo di una televisione a casa, di prolungare la serata. Ospite a mio agio su di un divano, con una coperta ai piedi, guardo con curiosità questo film che è sulle pagine di tutti i giornali. Domani, inizia la Quaresima – penso – “mi concedo il lusso di una serata cinema”. Ho freddo, ma il panno sulle gambe rende la cosa molto familiare, come quando a casa, da piccoli, si guardava tutti insieme la tv.

Per fortuna, c’è la pubblicità. Sono anni che non guardo un film sulle reti tradizionali. E’ comoda. Ti permette di non addormentarti e magari riuscire a fare una serie di cose che non è bene mentre guardi un film, come mandare un sms: “Sto guardando “La grande bellezza”, non ci capisco niente” o a quella successiva “Aiuto! Sempre peggio, il mistero s’infittisce”.

A mezzanotte, il film finisce. Dormono praticamente tutti in casa. Saluto imbarazzato chi mi ha ospitato e salgo in macchina con una sensazione strana. Una grande amarezza. Il protagonista, Geb Gambardella è un
uomo di sessantacinque anni, si definisce “il re dei mondani”. Attorno a lui, un mondo decadente di anziani che giocano a vivere, senza in realtà assaporare niente della vita. La femminilità prorompente di Serena Grandi è ora segno di una dirompente degrado fisico e morale. Tutto è corroso non solo l’età. C’è un marciume nei dialoghi, nei trenini delle feste che “non vanno da nessuna parte!”, nei balli che è danza, ma macabra esibizione di se stessi…La vita è un’impalcatura. Un immenso sepolcro imbiancato su cui si muovono attori che hanno come prospettiva la nostalgia “l’unico svago che ci resta per chi è diffidente verso il futuro. L’unico”. Eppure, c’è un che di autocompiacimento languido. Come dire, “la vita è un trucco, ma, in fondo va bene così”.

Lo sguardo amaro di Geb è l’ultimo fotogramma del film. Dietro di sé cumuli di polvere di una vita insignificante e fallimentare. “Sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”. Non sono solo le parole conclusive di un film che di bellezza racconta poco, se non quella di averla desiderata. “L’uomo miserabile” è la definizione della condizione di ciascuno quando fa della sua vita una caccia al tesoro, senza tesoro. “Ho cercato la grande bellezza”, ma in fondo in fondo, c’è poi una bellezza più grande del mondo?

Resiste, in mezzo allo squallore di un illusoria felicità, il sapersi amato. Un diario di una donna, rinvenuto e poi definitivamente perso per sempre, rivela a Geb di essere sempre stato amato. Peccato, non essersene accorti. Peccato non essere riuscito ad ingannare il mondo ed essersi scrollato di dosso la polvere che si accumula inesorabile su chi si lascia sedurre dal potere. Dopo una notte trascorsa con una donna di molto più giovane, Geb quasi stupito confessa: “È stato bello non fare l’amore…”. Ramona risponde “È stato bello volersi bene!”. Geb non è stato capace. Mai. Peccato accorgersene quando la vita comincia ad allontanarsi da sé. Peccato accorgersene quando il cinismo ha preso una fetta consistente di sé. Peccato non è un termine morale per indicare la trasgressione, ma la constatazione che abbracciare se stesso, come un Narciso qualunque, significa abbracciare il niente.

Neppure la Santa, figura di una donna consumata dall’età e dalla povertà che “si vive, non si racconta” (unico sprazzo di verità di un film che ammicca all’indolenza di un certo intellettualismo marxisteggiante che ha scritto e parlato dei poveri, ma senza aver incontrato i poveri e vissuto con loro!), riesce a far emergere un desiderio di bellezza. La sua salita, solitaria, lontana dagli occhi del mondo, per ascendere sino alla soglia del Mistero di Dio appare come una solitudine beata incapace di incidere sulla tristezza del mondo.
Un film cupo e deprimente che racconta l’accumulo di polvere sui volti e sui cuori delle persone rendendoli opachi e spenti. L’immersione nei piaceri e la dissolutezza nelle ricchezze, il confondere felice con facile, benessere con bene, vitalità con vita conducono allo sbriciolamento del reale. “La vita” – per dirla con un altro Oscar – non “è bella”, smorzata nella sua promessa di bellezza dall’assenza di verità e di amore. Non è la condizione di un certo mondo soltanto, di una bene società che odora di Chanel e puzza di marcio. No.
Il mondo sono io. Il film racconta l’amarezza di chi vive cercando “la ricompensa degli uomini”. Il Vangelo delle Ceneri è la miglior recensione al film di Sorrentino. Si ha come l’impressione che i protagonisti recitino una parte da schiavi. Servi di un potere e di un dittatore che si chiama “io”. “Ho cercato la grande bellezza e non l’ho trovata”. Peccato. Perché c’è. Solo bisogna, ogni tanto, anche una volta all’anno, spargersi delle ceneri sul capo.
Ci libera dalla polvere che si è annidata negli angoli più nascosti del nostro vivere. Francesco d’Assisi assomiglia a Geb Bambardella. Lo chiamavano il “re delle feste di Assisi”. Anche Francesco cercava la bellezza. Tra le cose del mondo, perché in fondo e non solo lì, ma anche nella superficie, il mondo è bello. Eppure, niente più lo soddisfaceva più. Ha continuato a cercare e a mendicare. Lo ha fatto tutta la vita. In una diroccata chiesetta fuori Assisi, in località San Damiano, Francesco, il cui sguardo, al tempo doveva assomigliare a quello inespressivo dei protagonisti del film, l’ha incontrata.
Una Bellezza più grande e coinvolgente di tutte. Una tal bellezza da innamorarsi e per la quale spogliarsi nudo per abbracciarla e unirsi a Lei. Non una nudità del corpo, ma di sè. Spogliato, Francesco può unirsi a Cristo Crocifisso, Divina Bellezza, amante, persino, di ogni mia bruttezza. Vorrei in questa Quaresima dedicarmi a Lui, lasciando da parte l’amarezza che film a parte, registro ogni qual volta mi dedico al mio ombelico. Non voglio la polvere del mondo. Voglio la cenere che mi ricorda che sono amato. Non su un diario perduto, su pagine che nessuno legge, ma nel Libro della Vita.

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