sabato 25 gennaio 2014

SU INTERNET & DINTORNI, BASTA INGENUISMI. PAROLA DI PAPA


di Dino Boffo

Cari Amici,
non riesco a lasciar passare sotto silenzio il messaggio che papa Francesco ha distillato per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, in calendario per il prossimo maggio. Vi è espresso infatti un radicale mutamento di approccio a proposito di Internet e di quanto questa tecnologia ha prodotto in termini di «ambiente vitale» e di cultura. Tra le righe del pronunciamento papale si annida un rovesciamento di lettura e un'esplicita inversione nella gerarchia delle preoccupazioni. Diciamolo fuori dai denti, è la fine dell'ingenuismo che aveva singolarmente connotato − specialmente nell'ultimo lustro − l'incorporazione della tecnologia digitale nel costume ecclesiale, con l'implicita formulazione di una pedagogia conseguente. Onestamente si è faticato non poco a comprendere il senso di certo trionfalismo accecato, la percezione di aver finalmente trovato la chiave di innesto financo nei meccan ismi mondani più didascalici. In casa cattolica, non si trovava − in anni recenti − convegno che non facesse perno sulla poetica mirabolante di internet, trascurando in maniera sbadata i canali comunicativi classici e, alla prova dei fatti, non superati. Quasi che si potesse in campo comunicativo smentire la buona regola secondo cui l'ultimo ritrovato non annulla gli strumenti precedenti, semmai li affianca. Non che il Pontefice neghi ora le potenzialità prodigiose delle ultime tecnologie: semplicemente le interpreta come opportunità importanti, che però non scattano mai per via automatica. Anzi, nella misura in cui le si cavalca acriticamente, possono procurare danni rilevanti alla struttura delle persone come al costume collettivo. «Siamo sempre più connessi − dice il Papa − eppure mai siamo stati così distanti». Anche scandalosamente distanti, se si considera il divario non ridotto tra l'opulenza di chi dispone e l'indigenza di chi sta ai margini, ed è escluso. Non c'è traccia di moralismo nel ragionamento bergogliano, ma lucidità e disinibizione nel considerare i rischi di quella velocità di comunicazione che surclassa le abilità critico-riflessive, ma anche di quella ressa di opinioni che, oltre a spaesamento, può spingere il soggetto in una bolla autodifensiva. Ciò che Francesco propugna, a correzione di un certo andamento, è la «cultura dell'incontro»; e se le nuove tecnologie non instillano questa tensione, a ben poco risulteranno utili. Facile, è vero, pronunciare l'espressione – cultura dell'incontro – quando arduo resta creare le condizioni perché una simile cultura si sviluppi. E qui ciascuno deve condurre il proprio esame di coscienza. Per ciò che ci riguarda, come animatori di un canale quale Tv2000, mi chiedo in che modo possiamo dar corpo alla determina zione che non basta la disponibilità a porgere, bisogna nel contempo saper ricevere dagli altri. E ancora: attraverso quali modalità consegnare il telespettatore al proprio protagonismo anche dentro il video, e rompere così il diaframma che abitualmente contrappone gli operatori dal vasto pubblico. Come aprirci fino a farci simili, fino a stare con gli altri, non sopra e neppure semplicemente per loro. La prossimità non può ridursi a paternalismo mascherato. Una community non dev'essere un semplice reticolo di fili e neppure può condensarsi in una mera percentuale di ascolti, ma in un luogo di incontro umanissimo tra persone. «Solo chi comunica mettendo in gioco se stesso può rappresentare un punto di riferimento», avverte il Papa. Ma allora che cosa significa aprire le proprie porte, per una tv digitale? Verso quale interattività, in concreto, intendiamo spingere? E qui si spala nca la feconda prospettiva di un continuo affinamento della propria vocazione, sottraendosi al generale andazzo secondo cui ciascuno tende a fuggire da se stesso e dal proprio compito, illudendosi di saper fare bene l'altrui parte. Un'altra ingenuità, se non fosse altro infantilismo. Il messaggio del Papa ci aiuti tutti a sbagliare di meno.

Dino Boffo

venerdì 24 gennaio 2014

Papa Francesco: con gli altri costruire sempre ponti di dialogo non muri di risentimento


Non è facile costruire il dialogo con gli altri, specie se da loro ci divide un rancore. Ma il cristiano cerca sempre questa strada di ascolto e riconciliazione, con umiltà e mitezza, perché è ciò che ha insegnato Gesù. È il pensiero di sintesi dell’omelia tenuta da Papa Francesco alla Messa mattutina in Casa S. Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis:

Mi spezzo ma non mi piego, afferma una certa saggezza popolare. Mi piego pur di non spezzare, suggerisce la sapienza cristiana. Due modi di intendere la vita: il primo, con la sua durezza, facilmente destinato ad alzare muri di incomunicabilità tra le persone, fino alla degenerazione dell’odio. Il secondo incline a gettare ponti di comprensione, anche dopo un diverbio, una lite. Ma, avverte Papa Francesco, a patto di ricercare e praticare “l’umiltà”. L’omelia a Casa Santa Marta è una prosecuzione di quella di ieri. Al centro della lettura liturgica, e della riflessione del Papa, ancora lo scontro tra il Re Saul e Davide. Il secondo, a un tratto, ha l’occasione di uccidere il primo ma, osserva Papa Francesco, sceglie “un’altra strada: la strada di avvicinarsi, di chiarire la situazione, di spiegarsi. La strada del dialogo per fare la pace”:

“Per dialogare è necessaria la mitezza, senza gridare. E necessario anche pensare che l’altra persona ha qualcosa di più di me, e Davide lo pensava: ‘Lui è l’unto del Signore, è più importante di me’. L’umiltà, la mitezza… Per dialogare, è necessario fare quello che abbiamo chiesto oggi nella preghiera, all’inizio della Messa: farsi tutto a tutti. Umiltà, mitezza, farsi tutto a tutti e anche – però non è scritto nella Bibbia – tutti sappiamo che per fare queste cose bisogna ingoiare tanti rospi. Ma, dobbiamo farlo, perché la pace si fa così: con l’umiltà, l’umiliazione, cercando sempre di vedere nell’altro l’immagine di Dio”.

“Dialogare è difficile”, riconosce Papa Francesco. Ma peggio del tentare di costruire un ponte con un avversario è lasciar ingigantire nel cuore il rancore verso di lui. In questo modo, afferma, restiamo “isolati in questo brodo amaro del nostro risentimento”. Un cristiano, invece, ha per modello Davide, che vince l’odio con “un atto di umiltà”:

“Umiliarsi, e sempre fare il ponte, sempre. Sempre. E questo è essere cristiano. Non è facile. Non è facile. Gesù lo ha fatto: si è umiliato fino alla fine, ci ha fatto vedere la strada. Ed è necessario che non passi tanto tempo: quando c’è il problema, il più presto possibile, nel momento in cui si possa fare, dopo che è passata la tormenta, avvicinarsi al dialogo, perché il tempo fa crescere il muro, come fa crescere l’erba cattiva che impedisce la crescita del grano. E quando i muri crescono è tanto difficile la riconciliazione: è tanto difficile!”.

Non è un problema se “alcune volte volano i piatti” – “in famiglia, nelle comunità, nei quartieri” – ripete Papa Francesco. L’importante è “cercare la pace il più presto possibile”, con una parola, un gesto. Un ponte piuttosto che un muro, come quello che per tanti anni ha diviso Berlino. Perché “anche, nel nostro cuore – dice Papa Francesco – c’è la possibilità di diventare Berlino con il Muro con altri”:

“Io ho paura di questi muri, di questi muri che crescono ogni giorno e favoriscono i risentimenti. Anche l’odio. Pensiamo a questo giovane Davide: avrebbe potuto vendicarsi perfettamente, avrebbe potuto mandare via il re e lui ha scelto la strada del dialogo, con l’umiltà, la mitezza, la dolcezza. Oggi, possiamo chiedere a San Francesco di Sales, Dottore della dolcezza, che dia a tutti noi la grazia di fare ponti con gli altri, mai muri".

Radio Vaticana

World Wide Web, benedizione papale


di Redazione
Internet “è un dono di Dio perché può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti”. Anche Papa Francesco, come già aveva fatto il suo predecessore Benedetto XVI esattamente cinque anni fa, loda i nuovi media nella “Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali”, che si celebra domenica primo giugno. Il pontefice, però, nel suo messaggio sottolinea anche che “la velocità dell’informazione supera la nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé misurata e corretta e il desiderio di connessione digitale può finire per isolarci dal nostro prossimo, da chi ci sta più vicino.

Senza dimenticare che chi, per diversi motivi, non ha accesso ai media sociali, rischia di essere escluso”. Il messaggio di Papa Francesco si sofferma anche su altri “aspetti problematici”: “La varietà delle opinioni espresse - prosegue - può essere percepita come ricchezza, ma è anche possibile chiudersi in una sfera di informazioni che corrispondono solo alle nostre attese e alle nostre idee, o anche a determinati interessi politici ed economici”. “L’ambiente comunicativo - aggiunge Bergoglio - può aiutarci a crescere o, al contrario, a disorientarci. Comunicare bene ci aiuta a essere più vicini e a conoscerci meglio tra di noi, a essere più uniti. In questo mondo, i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa”.

I muri che “ci dividono - continua il Papa - possono essere superati solamente se siamo pronti ad ascoltarci e ad imparare gli uni dagli altri. Abbiamo bisogno di comporre le differenze attraverso forme di dialogo che ci permettano di crescere nella comprensione e nel rispetto. La cultura dell’incontro richiede che siamo disposti non soltanto a dare, ma anche a ricevere dagli altri. I media possono aiutarci in questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare Internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio”.

L'Opinione

giovedì 23 gennaio 2014

FEDRO. E QUELLA FAVOLA NATA STORTA.

Immagine
20140123-054752.jpg
Mercoledì 22 gen
Scritto da don Marco Pozza
Entrambi erano spinti dalla sete: il lupo e l’agnello. Poi – sulla scorta di falsi pretesti – il lupo fece un balzo verso l’agnello e lo sbranò. Il lupo di Fedro: scrittore romano vissuto a cavallo dell’era cristiana. Il lupo come simbolo di pericolo e di inimicizia, di tremore e di spavento, di sopraffazione e di antipatia. E col lupo tutta la sua discendenza: primi tra tutti, gli uomini che vivono nelle caverne delle galere, negli antri dei delitti, nell’ambigua malvagità delle loro gesta. Il carcere è la casa del lupo: cattivi e briganti, assassini e usurpatori, strozzini, villani e infingardi. Il lupo deve rimanere nel bosco, pena la sicurezza per la mansuetudine degli agnelli. Il galeotto deve rimanere nel carcere: pena la sicurezza della città. E della civiltà che arranca all’infuori delle sbarre.
E’ domenica e si sono appena scambiati la pace tra di loro, nello spazio dell’eucaristia. Che è già un paradosso: si augurano, si scambiano, si porgono la pace loro e tra di loro, uomini di guerra e poco avvezzi alla pace. Poi partono, com’è loro usanza: intonano l’Agnello di Dio. Le voci sono stonate, i baritoni s’improvvisano bassi, i contralti s’arrabattano con i soprani, le voci sono una babele di note impazzite sul pentagramma. Tra le mie mani quel pezzo di Pane spezzato: per amore, dentro un ventre ristretto, sull’altare del nostro piccolo ospedale da campo dopo la battaglia. Dopo troppe battaglie. La cantano la litania dell’Agnus Dei: e sento le mani che tremano, avverto l’urto di una forza dis-umana, un impeto che scende dritto dal Cielo. Loro, i lupi della società, che cantano: “Agnello di Dio (…) abbi pietà di noi”. Quando mai un lupo invoca pietà all’agnello? Quello di Fedro s’ingegnava falsi pretesti contro l’agnello, questi sembrano sbagliare la parte: supplicano misericordia alla mansuetudine dell’Agnello. Lupi impazziti: glielo ripetono ben due volte: “Agnello di Dio (…) abbi pietà di noi”. E lentamente le voci s’accordano tra di loro: qualcuno urla parole che gli escono dritte dalle corde vocali, che allagano imbarazzanti l’aria della piccola chiesa. Per poi sfidare il paradosso più paradossale, giusto in calce alla litania. Non basta la pietà, supplicano persino la pace: “Agnello di Dio (…) dona a noi la pace”. Siamo al disarmo più totale, è la dissoluzione dell’arroganza, il frantumarsi della grammatica umana. Lupi avvezzi alle guerre della giungla, uomini segnati da cicatrici sul capo, da orecchie strappate e da sguardi aguzzi e aguzzini si gettano in ginocchio e chiedono pace. Pace a loro, pace dentro loro, pace attorno a loro. Ad un Agnello.
La litania termina e sull’altare cala il silenzio dei primi mattini della Scrittura: quello gravido di sorpresa, apportatore dell’inaspettato, grembo dell’imbarazzo. Quell’Agnello che loro invocano io, prete, lo stringo tra le mani: è Pane, è fragranza, è bontà. Ha il sapore e il gusto delle cose feriali. I loro occhi sono tutti lì, catapultati come massi che rotolano sul versante franato di una montagna. E’ un branco di lupi catapultati improvvisi addosso a Lui: in fronte al pericolo chiedono la compagnia dell’Agnello, la disgrazia cerca disperatamente la Grazia, la miseria adocchia la misericordia. Poi mi faccio forza e rispondo al grido dei miei lupi, piccolo Israele disobbediente nel deserto della reclusione: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. E loro in coro a spogliarsi di tutto, nudi sotto il cielo: “non siamo degni. Una tua parola, Agnello, ci salverà”. Amen: ci fidiamo, ci affidiamo. La resa del lupo.
Ho immaginato l’imbarazzo di Fedro; ho gustato l’imbarazzo del Cielo, laddove il lupo e l’agnello pascoleranno assieme. Domani accadrà questo. Oggi, però, ci sono luoghi che sono anticipi di Eterno. Imbarazzi evangelici di una chiesa di periferia.
sullastradadiemmaus

Quando il Papa non somiglia a donna Prassede



don Marco Pozza

L'uomo dalla memoria di ferro. Capace di ricordare che le fondamenta dell'avventura cristiana nel mondo nascono sulle braci ardenti di un incontro, quello con il Risorto la mattina della prima Pasqua cristiana: senza quelle braci, il fuoco della Grazia cede il posto alle ceneri della disgrazia, magari travestita di Vangelo. Quella con Cristo, dunque, è l'unica amicizia che gli uomini di ogni tempo possano vantare di possedere. Tutte le altre – decantate nelle forme più stravaganti, il celebre “amico dell'amico” – sono ardite imitazioni di quell'unica amicizia riconosciuta dai Vangeli. Un'amicizia che arreca sorpresa, forse anche imbarazzo. La sorpresa di un gesto inaspettato, di un cambio di traiettoria, di un cambiamento che abbia a cuore l'unico scopo per cui vale la pena cambiare: fare in modo che il passato possa un giorno essere raccontato anche a coloro che verranno. Lo sa bene papa Francesco: definirlo l'uomo delle sorprese è banalizzarne la persona, tratteggiarlo come il conquistatore di folle è irriderne lo strenuo suo tentativo di agganciare il mondo a Cristo, esaltarlo oltre misura è misconoscere che la sua grandezza abita nell'impopolarità evangelica. Eppure è di sorpresa che spesso lui ama parlare: “Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell'incontro”. Una sorpresa letta nella sua duplice sfaccettatura: “mi hai fatto una sorpresa”, perchè l'avvicinarsi di Cristo è sempre in vista di una confidenza con l'uomo. E nell'altro suo significato: “mi hai sorpreso”, perchè se è vero che il cristianesimo nasce da un incontro, è altrettanto vero che di quell'incontro non dettiamo noi i tempi e nemmeno possiamo prenderne l'iniziativa. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Chiesa si disorienta. Potrà anche organizzarsi delle sorprese, ma mancherà loro l'ingrediente necessario per non leggerle come bufale: l'impossibilità di prevedere. E, di conseguenza, la grandezza di chi accetta di lasciarsi sorprendere. Di lasciarsi amare, più che di amare.
Lo chiamano il "Papa delle sorprese", eppure è così scontato nelle sue scelte che verrebbe da dire a taluni: “ma l'avete mai letto il Vangelo?” Si sorprendono – fino a commuoversi – quando parla di periferia: non è forse vero che sin dai primi righi della Scrittura quando Dio decide di cambiare il mondo parte sempre dalla periferia? Chiama pescatori ed esattori, donne di malaffare e strozzini, riaccredita storpi e paralitici. Scardina la storia con un pugno di pescatori e un traditore contabile: per non parlare del suo ingresso nel Paradiso a braccetto con un delinquente. Altri si sorprendono perchè i cardinali li sceglie in base alla prossimità ai poveri piuttosto che alle sedi cardinalizie e alle amicizie di cordata: non è forse vero che Dio sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti? Alle ambizioni dei figli di Zebedeo – sponsorizzate dall'inquietudine della madre – dichiarò apertamente di preferire l'altra faccia della storia: quella sconsiderata, dimenticata, sbeffeggiata. Le storie di periferia.

Lo chiamano il "Papa delle sorprese". Poi però s'arrabbiano se le sorprese che recapita al mondo non corrispondono alla loro volontà. Da quando esiste il mondo, però, la sorpresa è bella se giunge inaspettata, imprevedibile, inimmaginabile. Le altre somigliano ai regali di compleanno pilotati: “mi raccomando, fai almeno finta di sorprenderti quando lo apri”. C'è stato anche quel tempo nella Chiesa: certe sorprese avevano poco di sorprendente, eppure andavano di moda. Ci si faceva le sorprese a vicenda: cioè si condivideva spesso la noia della scontentezza. Stavolta sembra la volta buona: l'unica sorpresa è Cristo. E le prime berrette cardinalizie sono andate dritte in periferia, laddove batte forte il cuore di Cristo. Con buona pace di chi le sorprese amava farsele a vicenda: era il tempo di donna Prassede. Morta, sepolta e pure sbeffeggiata.

sullastradadiemmaus

mercoledì 22 gennaio 2014

Le preferenze ed i Parlamenti delle mafie


di Arturo Diaconale

22 gennaio 2014 EDITORIALI
Non sarà il ritorno alle preferenze ad assicurare il diritto dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. Chi si ostina a combattere una battaglia di questo genere o è un ingenuo che poco conosce la storia politica del nostro Paese o è un ipocrita nostalgico del passato ma a cui la fine della Prima Repubblica non ha insegnato un bel nulla. Degli ingenui è inutile parlare. Queste “belle anime” si riempiono la bocca e la testa di frasi fatte sulla necessità di strappare ai capipartito il privilegio di scegliere gli eletti. Ma evitano accuratamente di informarsi che all’epoca delle preferenze erano sempre i capipartito a formare le liste dei candidati al Parlamento. E lo facevano nient’affatto decisi a lasciare liberi i singoli candidati di conquistare come meglio potevano il consenso popolare, ma scegliendo accuratamente i candidati su cui concentrare i voti dell’apparato di partito e quelli che sarebbero comunque stati eletti grazie ai voti delle lobby e dei gruppi di pressione. Se queste “belle anime” rinunciassero ai vuoti schematismi e approfondissero la conoscenza della storia politica dell’Italia Repubblicana si renderebbero conto che il Parlamento dei “nominati” esisteva anche al tempo delle preferenze. I Parlamenti del Pci (e poi del Pds e dei Ds) erano tutti, senza alcuna eccezione, scelti dal vertice del partito e votati disciplinatamente dai militanti. Quelli degli altri partiti o erano sostenuti dagli apparati o erano espressione di potentati locali o nazionali ben conosciuti e accettati dai capi delle singole formazioni politiche. Non erano le preferenze a dare la misura della democrazia. Era il sistema dei partiti che usava le preferenze per indirizzare a proprio piacimento la formale libertà di scelta dei cittadini. È difficile che gli ingenui si lascino convincere da queste argomentazioni (anche perché informarsi richiede impegno e non farlo consente di continuare a dispensare impunemente sciocchezze moralistiche). Ma forse l’argomento che va speso per smascherare gli ipocriti nostalgici del tempo passato può contribuire ad incrinare anche le loro ingenuità. Si tratta della considerazione secondo cui il ritorno alle preferenze, in una fase in cui i partiti tradizionali sono in crisi, diventerebbe un ulteriore e potentissimo incentivo al malaffare. Le elezioni con preferenze impongono ai singoli candidati spese personali direttamente proporzionali alla dimensione delle circoscrizioni ed alla ambizione dell’aspirante parlamentare. Qualcuno si chiede perché mai negli ultimi anni nel mirino della magistratura siano finiti in prevalenza i consiglieri delle regioni dove si vota con il sistema delle preferenze piuttosto che i deputati ed i senatori nazionali? Ed a nessuno viene in testa la preoccupazione che con lo spappolamento dei vecchi partiti il sistema delle preferenze trasformerebbe il Parlamento nella Camera dei ricattati dalle lobby, dai potentati legittimi di ogni genere e grado e, soprattutto, dalla mafia, dalla camorra e da ogni forma di criminalità organizzata? Tutto questo, ovviamente, non significa sostenere che il Parlamento dei nominati dai capipartito sia meglio del Parlamento scelto dalle mafie. Significa, più semplicemente, ricordare che passare dalla padella alla brace produce lo stesso risultato disastroso. E che se si vuole effettivamente trovare una soluzione al problema non c’è altra strada che quella dell’introduzione per legge delle regole democratiche all’interno dei partiti. Cioè fare ciò che i più illuminati dei Padri Costituenti avevano chiesto e che i più furbi dei capi-partiti di allora non fecero mai passare nella Carta Costituzionale!

L'Opinione

martedì 21 gennaio 2014

Angelino Alfano, il numero “primo”


di Maurizio Bonanni
Dice un detto: “Andarono per suonarle e furono suonati!”. Prendiamo il buon Cicchitto, che si è “cicchettato” un passato di talebano pro-Cav per diventare il Coniglio Mannaro (vi ricorda qualcosa? Pansa, illuminaci tu!) dell’Ncd! Nemmeno si fosse trattato della conversione di Saul sulla via di Damasco! E Alfano, non vi sembra quello della “Solitudine dei numeri primi”, politicamente parlando? Indivisibile per Berlusconi, per il Pd e per Grillo.

Andrà a finire spontaneamente tra i rottamati, come Fini, Casini e Monti? Curioso: lui giura e spergiura di pensare solo agli interessi dei cittadini ma, a quanto pare, gradisce le frattaglie della Prima Repubblica, quando i partitini facevano e disfacevano i Governi balneari, con i loro insulsi capricci, ripicche e impuntature. Lui, “primo”, non può pretendere certo di fare il comune multiplo del centrodestra, poverino. Rivuole indietro le preferenze (che, per inciso, nella sua Sicilia hanno rappresentato l’epopea dorata del voto di scambio), ben sapendo la preferenza di Renzi (e Berlusconi) per i “listini chiusi”. E si capisce perché.

In tal modo il Cavaliere potrà continuare a dirigere incontrastato la sua creatura politica, mentre Matteo, con il giochino delle Primarie, farà fuori uno dopo l’altro i suoi cacicchi del Pd, ormai vecchi e ridicoli arnesi di un tempo che fu. Mi chiedo: è un bene o un male tutto ciò? Mi rispondo da solo, con due osservazioni. La prima: non mi pare questo un modo per procedere a un radicale rinnovamento della leadership politica. La seconda: questi accordi storici di Palazzo si rivelano inutili a cambiare, in positivo, il volto di uno Stato-Amministrazione, che uccide economicamente il Paese, con i suoi immensi sprechi di denaro pubblico e con la sua burocrazia faraonica, nemica del contribuente, in cui i pubblici impiegati godono di assurdi privilegi, rispetto ai lavoratori privati.

Oltre al presidenzialismo (del tutto condivisibile), c’è da progettare un nuovo sistema, per la scelta dal basso della rappresentanza parlamentare, e della dirigenza pubblica. Io personalmente vedo due modelli possibili per la creazione delle nuove leadership. Il primo consiste in una generalizzazione del meccanismo delle elezioni primarie, previa eventuale (ma non necessaria) sua costituzionalizzazione. Oggi chiunque si voglia candidare non deve per forza dimostrare di “saper” fare il parlamentare, mentre tutti, tanto per dirne una, dobbiamo superare un esame teorico-pratico, per poter guidare un’automobile.

Ora, mi sembrerebbe quantomeno un fatto di pura decenza, pretendere che gli aspiranti parlamentari siano dotati di un’adeguata “patente” di guida prima di stringere il volano della più grande e sofisticata macchina istituzionale, che produce leggi e regolamenti d’importanza primaria per il cittadino, determinando l’indirizzamento di molte centinaia di miliardi di spesa pubblica. Chi si candida, quindi, deve dimostrare sia di saper scrivere e illustrare pubblicamente una legge, sia di conoscere, in maniera sufficiente, i processi di formazione del bilancio dello Stato. Poi, è giusto che chiunque abbia ottenuto l’idoneità si possa iscrivere a una Lista Unica Nazionale di Aspiranti Parlamentari, accessibile dal web, e completa dei curricula aggiornati dei candidati (dichiarazione dei redditi compresa!) e del loro programma politico individuale. Dopo di che, parrebbe del tutto naturale affidare a un Organo supremo di sorveglianza (di preferenza, la Corte Costituzionale) la gestione della Lista unica, attraverso uno o più Regolamenti di legge.

Il citato organo accerta l’idoneità tecnica e morale dei candidati, sovrintendendo alle procedure di cancellazione, iscrizione e reintegrazione nella lista stessa. A ogni tornata elettorale, partiti, associazioni, movimenti (sia presenti, che assenti dal Parlamento) offrono proprie candidature agli iscritti alla Lista, da sottoporre, poi, al giudizio delle primarie di partito, associazione, Movimento, ecc., regolate da legge e uguali per tutti. Sarebbe la fine dei partiti “padronali” e i corrotti resterebbero fuori dal Parlamento. Tuttavia, anche un Parlamento eletto con primarie aperte e trasparenti, non è immune dall’influenza negativa delle lobbies.

Occorre chiudere dal basso il circuito di garanzia, ad es., introducendo in Costituzione il referendum “propositivo-confermativo”, che dovrebbe funzionare come segue: a) un Comitato promotore raccoglie X% (in proporzione agli aventi diritto al voto, arrotondato all'unità superiore) di firme, su una legge d'iniziativa popolare; b) previo parere di ammissibilità della Corte Costituzionale, il progetto viene trasmesso, esaminato - con corsia preferenziale - e votato dal Parlamento; c) in caso di bocciatura, il Comitato promotore può chiedere al Presidente della Repubblica (che ne è obbligato) di sottoporre la proposta a referendum prop./conf. La proposta è approvata e pubblicata senza indugio sulla Gazzetta Ufficiale, qualora abbia ricevuto il 50%+1 dei voti validamente espressi.

Per le proposte di legge costituzionale il quorum è identificato con il 50%+1 (arrotondato all’unità superiore) degli aventi diritto al voto. Mi sembra che potrebbe bastare, per cambiare i connotati a questa Repubblica! Infine, per liberarci da ogni forma di clientelismo, nella scelta del personale pubblico (sia dirigenti, che impiegati) basta reinterpretare, in chiave moderna, quanto disposto dall’attuale Cost., in materia di reclutamento per concorso. Sintetizzo come segue il mio asso nella manica. Primo: fare obbligo per legge a tutte le PP.AA. (Stato, comuni, province, ecc.) di comunicare a una Authority esterna e indipendente (per il 60% composta da personalità di fama internazionale, estratte per sorteggio, con incarico quinquennale non rinnovabile!) “tutti” i posti vacanti e gli incarichi disponibili, previa copertura finanziaria della spesa relativa e pubblicizzazione del tipo di contratto che si intende offrire. Secondo punto.

L’Authority, con proprio regolamento: stabilisce - per comparto e per profilo professionale - i requisiti morali, culturali e attitudinali per essere inseriti in liste aperte uniche nazionali degli aspiranti agli incarichi e ai posti pubblici di lavoro disponibili; assegna un punteggio numerico obiettivo ai titoli professionali/ culturali e alle esperienze lavorative, in modo funzionale alle liste di comparto e alle sotto liste professionali. Ultimo punto: sarà l’Authority a operare, in modo autonomo e automatico, un semplice “matching” tra ordini di graduatoria e posti/incarichi disponibili. Fine, così, dell'ingerenza della politica, e avvio di un vero e proprio mercato del lavoro, che equipari pubblico e privato.

Con questo metodo, qualsiasi dirigente e impiegato è assunto esclusivamente sulla base del merito individuale. Per par condicio, tutti gli attuali dirigenti e impiegati sono tenuti a dotarsi del titolo di abilitazione previsto dall’Authority, per il loro comparto e professione. Chi non supera le prove d’idoneità è semplicemente fuori, e deve sottoporsi a un ciclo obbligatorio di formazione-lavoro, prima di ritentare la prova. L’accertamento dell’idoneità ha, per tutti, carattere periodico, così come accade per la patente di guida. Pensate alla rivoluzione che comporterebbe una simile misura nella scuola, nella sanità e in tutta la PA, in generale! Chi mi aiuta a dirlo a milioni di telespettatori? Berlusconi, Corrado Passera, o Cairo, per esempio?

L'Opinione
Nella familiarità nata tra cattolici ed ebrei per far fronte alla persecuzione nazista in Italia
di ANNA FOA
Gli studi degli ultimi anni stanno mettendo sempre più in luce il ruolo generale di protezione che la Chiesa ha avuto nei confronti degli ebrei durante l'occupazione nazista dell'Italia. Da Firenze, con il cardinal Dalla Costa su cui si tiene questo convegno, proclamato Giusto nel 2012, a Genova con don Francesco Repetto, anch'egli Giusto, a Milano con il cardinal Schuster, e via via fin naturalmente a Roma dove la presenza del Vaticano, oltre all'esistenza delle zone extraterritoriali, consentì il salvataggio di migliaia di ebrei. Proprio a proposito di Roma il lavoro recente di Andrea Riccardi ha messo in luce molti aspetti importanti di questa vicenda, dalle modalità con cui fu portata avanti l'opera di ricovero e salvataggio dei perseguitati, che erano tali da non poter essere il frutto soltanto di "iniziative dal basso" ma erano chiaramente coordinate oltre che consentite dai vertici della Chiesa, al fatto che essa non si limitava agli ebrei, più a rischio degli altri, ma si estendeva a tutti coloro che erano in pericolo (la mezza Roma che nascondeva l'altra mezza), al fatto evidente che i nazisti erano ben consapevoli di quello che succedeva nei conventi: la partita si giocava sul filo del rasoio e non riguardava solo la possibilità di dar rifugio agli ebrei, ma il rapporto tra Chiesa e nazisti, e cioè la possibilità che il regime nazista ponesse d'un colpo fine alla presenza di uno Stato neutrale, il Vaticano, nel cuore della Roma occupata. Si cancella così l'immagine proposta negli anni Sessanta di un Papa indifferente alla sorte degli ebrei o addirittura complice dei nazisti.
Vorrei mettere qui in rilievo che questa più recente immagine dell'aiuto prestato agli ebrei dalla Chiesa nasce non da posizioni ideologiche filocattoliche, ma soprattutto da ricerche puntuali sulla vita degli ebrei durante l'occupazione, dalla ricostruzione di storie di famiglie o di individui. Dal lavoro sul campo, insomma. Il rifugio nelle chiese e nei conventi emerge in continuazione dai racconti dei sopravvissuti, percorre come un filo rosso le testimonianze orali raccolte negli anni in Italia (come il corpo vastissimo delle testimonianze di ebrei italiani rese alla Shoah Foundation), si ritrova presente nella maggior parte delle memorie dei contemporanei. È raccontato come un dato di fatto, appartiene al campo delle evidenze, con tutte le diversità delle situazioni, dai conventi che chiedono una retta a quelli che accolgono gratis gli ebrei, che a loro volta danno una mano nel lavoro quotidiano come nel caso delle ragazze ebree che aiutano a fare scuola ai bambini nella scuola delle Maestre Pie Filippini a Roma Ostiense, raccontato da Rosa Di Veroli. È insomma un'immagine che è il frutto non del dibattito sul tema Chiesa e Shoah ma anche e soprattutto della ricerca volta ad illuminare la vita e il percorso degli ebrei sotto l'occupazione nazista.
La dibattuta quaestio storiografica su Pio XII e gli ebrei ha per molti decenni frenato la ricerca e spostato sul terreno ideologico ogni tentativo di fare chiarezza sui fatti storici. Penso che per fare storia del rapporto della Chiesa con gli ebrei nell'Italia occupata sia innanzi tutto necessario sgombrare il campo da questa questione. Cioè, la domanda principale non può essere quella del rapporto tra lo "spirito profetico" di un Papa e i compromessi diplomatici di un altro Papa, ma quella su quanto e fino a che punto e anche con quante opposizioni interne la Chiesa e il Papa fossero alla guida dell'opera di salvataggio degli ebrei italiani. Le due questioni sono distinte e vanno, io credo, tenute distinte.
L'indagine sulle modalità concrete dell'aiuto agli ebrei, sulla presenza degli ebrei nei conventi e nelle chiese, sulla vita degli ebrei dentro i rifugi ecclesiastici, comincia a mettere in luce un aspetto su cui, mi sembra, poco si è riflettuto finora, quello del cambiamento di mentalità che ne può essere derivato, un tema su cui qualche spunto si può trovare nel libro di Andrea Riccardi su Roma. Infatti, è vero che ebrei e cristiani avevano convissuto per secoli, tra le mura dei ghetti e nelle antiche giudecche, in Italia e particolarmente a Roma, ma questa convivenza aveva raramente coinvolto degli ecclesiastici. Ora, di necessità per l'urgenza della persecuzione, preti ed ebrei dividevano lo stesso cibo. Le donne ebree passeggiavano nei corridoi dei conventi di clausura, gli ebrei imparavano il Padre Nostro e si infilavano la tonaca come precauzione in caso di irruzioni tedesche e fasciste. Rosa Di Veroli, richiesta di pregare insieme con gli altri in chiesa, lo faceva ma recitando sottovoce lo Shemà. C'era un'effettiva speranza da parte cristiana di toccare il cuore indurito degli ebrei e spingerli al battesimo? E quegli ebrei che si battezzarono, lo fecero in seguito ad una vera richiesta o per il fascino di un mondo che non conoscevano e che offriva loro protezione? E ci viene in mente la Lia Levi di Una bambina e basta, attratta per un breve momento dal battesimo. Parliamo ovviamente dei casi di conversione nei conventi, non di quelle conversioni, vere o simulate che fossero, fatte nel 1938 nella speranza di evitare i rigori delle leggi razziste, quando il cardinal Schuster battezzava all'alba gli ebrei in Duomo e i giornali antisemiti più radicali, con Farinacci, vedevano in questi battesimi "il cavallo di Troia degli ebrei nella società ariana e cristiana".
Tutto questo mette certamente in moto nelle due parti esitazioni e timori nei confronti di un rapporto tanto stretto e quotidiano. Nei sacerdoti e soprattutto nelle suore questi timori possono prendere la strada dell'impulso verso la conversione, inserendosi così su un filone più consolidato e tradizionale di rapporto. Così, la quotidianità e l'attenzione trovano giustificazione e conforto nella speranza di portare un ebreo al battesimo. Negli ebrei, invece, il timore direi atavico di essere spinti verso la conversione porta talvolta (emergono casi del genere nella documentazione orale) a non prendere nemmeno in considerazione l'idea di trovare rifugio in un'istituzione ecclesiastica. Ma può succedere che nulla di tutto questo si realizzi. Che dire, a Roma, della chiesa di San Benedetto al Gazometro, dove molti ebrei trovarono rifugio, e del suo parroco allora giovanissimo, don Giovanni Gregorini, che trovava il tempo di fare ogni giorno due chiacchiere con uno dei rifugiati ebrei, uomo di una certa età e molto religioso, parlando con lui delle rispettive religioni, e dei loro rapporti? Qui, dalle due parti, c'è rispetto reciproco e curiosità dell'altro. Insomma, io credo che questa familiarità nuova e improvvisa, indotta senza preparazione dalle circostanze, in condizioni in cui una delle due parti era braccata e rischiava la vita ed era quindi bisognosa di maggior "carità cristiana", non sia stata senza conseguenze sull'avvio e sulla recezione del dialogo. Un dialogo molto più tardo, certo, e avviato soprattutto a livello teorico (pensiamo a Jules Isaac e all'insegnamento del disprezzo), mentre questo ci appare come un dialogo dal basso, fatto di pasti consumati insieme e di discorsi senza pretese, anche per superare le ansie di un rapporto sconosciuto fino a quel momento. Così, le suore di un altro convento romano aggiungevano il lardo alla zuppa comune solo dopo averla distribuita alle ebree rifugiate da loro. Anche questa è una forma di dialogo dal basso, mi sembra.
Nel primo dopoguerra, nel momento in cui prevaleva la rimozione, questo processo dialogico è stato in parte bloccato, da una parte perché gli ebrei erano intenti a ricostruire il proprio mondo e la propria identità dopo la catastrofe, dall'altra perché i cattolici sembravano esser tornati sulle posizioni tradizionali in cui la speranza della conversione era più forte del rispetto. È forse questa chiusura dei primi anni dopo la Shoah ad impedire lo sviluppo di quel dialogo dal basso, alla pari di quello ai livelli più alti, come dimostra il fallimento dell'incontro di Jules Isaac con Pio XII. Comunque fosse, agli inizi degli anni Sessanta, con Il vicario di Hochhuth, su questo processo sarebbe stata proiettata l'ombra della leggenda nera di Pio XII, con il risultato di intralciare e opacizzare la memoria e il peso di quel primo percorso comune. Oggi è il momento giusto per riprendere a indagarlo.

osservatoreromano 

Il desiderio di vedere Dio


Quanti di noi oggi, anche tra i cristiani, mettono il vedere Dio al vertice dei loro interessi? Eppure nella concezione biblica dell’uomo la sua massima aspirazione è poter vedere Dio “faccia a faccia”, come troviamo per esempio nei Salmi, nei profeti, nei libri sapienziali e soprattutto in Mosè, per quanto riguarda l’Antico Testamento. Ma è il Nuovo Testamento che, in S.Paolo e S.Giovanni, ci assicurano di questa possibilità non per questa vita ma in una vita oltre la morte, perché è venuto un uomo, Gesù Cristo, il quale, a differenza di ogni altro, vedeva Dio immediatamente perchè era ed è lo stesso Figlio di Dio, Dio egli stesso, uguale al Padre.
Ora Gesù Cristo, secondo il Nuovo Testamento, ci concede appunto questa possibilità di vedere Dio ovvero la sua essenza e di vederlo nel suo mistero trinitario immediatamente e direttamente, in quanto Egli ci rende partecipi mediante la grazia, della sua stessa figliolanza divina. Per questo S.Giovanni ci promette che in paradiso “saremo simili a Lui – cioè a Dio – perché lo vedremo così come Egli è”.
Potremmo chiederci: questo desiderio, questa prospettiva, questa possibilità o questo fine di vedere o sperimentare immediatamente, senza mediazioni concettuali, l’essenza di Dio e in particolare del Dio trinitario, è un qualcosa che è solo rivelato da Cristo e quindi oggetto di fede teologale o soprannaturale, sono solo verità soprannaturali o hanno un qualche precorrimento o preannuncio o presagio, o condizione di possibilità nelle aspirazioni più profonde della natura e della ragione umane?
Insomma: si tratta di un desiderio naturale o di un desiderio soprannaturale? La visione di Dio è il soddisfacimento di un desiderio naturale o di un desiderio che suppone la fede nella divina rivelazione ovvero la conoscenza di ciò che Cristo ci ha rivelato? Si tratta di un desiderio che va al di là dei fini e dei bisogni della natura, e che comporta l’elevazione o il trascendimento del sapere umano ad un livello che da sola la ragione non saprebbe raggiunger e neppure desidererebbe?
La nostra ragione fin dove può e fin dove desidera arrivare nel suo desiderio di conoscere Dio? Desiderare di più di quanto si può raggiungere sarebbe lodevole o sarebbe indiscreto? Quale conoscenza di Dio soddisfa pienamente la sua aspirazione naturale? Potrebbe l’uomo raggiungere una piena felicità anche senza essere ordinato da Dio all’ordine soprannaturale della visione beatifica? Oppure la visione beatifica e quindi la vita soprannaturale sono necessarie al fine naturale della vita umana? Quale è il fine ultimo naturale della conoscenza umana? Quale tipo di conoscenza di Dio?
Ora non c’è dubbio che per quanto riguarda la conoscenza di Dio, la ragione umana potrebbe ritenersi soddisfatta nel conoscere la natura di Dio indirettamente e concettualmente come causa prima e fine ultimo dell’universo e dell’uomo, partendo dall’esperienza delle cose e del proprio io. Per questo Pio XII nell’enciclica Humani Generisricorda la gratuità dell’ordine soprannaturale, ossia il fatto che esso non è necessario nè dovuto da Dio all’uomo per il raggiungimento del fine ultimo naturale della vita umana, ossia per quella conoscenza ultima e somma di Dio che è consentita dalle forze della ragione, ovverosia dalla sapienza filosofica o della teologia naturale.
In altre parole, Dio avrebbe potuto creare un’umanità perfetta, virtuosa e felice, non senza dotarla di doni preternaturali come l’immortalità e l’impassibilità, in piena comunione con Dio e con la natura, senza per questo elevarla all’ordine soprannaturale dei figli di Dio, annunciato e previsto dal Vangelo, ossia senza finalizzarla alla visione beatifica del Dio Trinitario. La visione di Dio diventa un’esigenza assoluta e legittima, e Dio è tenuto a soddisfarla, impegnandosi con Se stesso, solo nell’ipotesi, del resto attuata nell’attuale piano della salvezza, dell’uomo elevato alla vita soprannaturale, ossia dotato della grazia di Cristo, uomo che sa che il suo fine possibile e doveroso è la visione beatifica, supponendo che la desideri e non si lasci sedurre dal peccato, cosa nella vita presente sempre possibile.
In tal modo nell’attuale piano della salvezza l’uomo è indubbiamente orientato da Dio al fine ultimo soprannaturale della visione beatifica rivelato da Cristo e dalla Chiesa, ma questo non significa assolutamente la vanificazione del fine naturale, che resta in tutta la sua consistenza ontologica ed obbligatorietà morale, benchè subordinato al fine ultimo soprannaturale. La grazia, secondo l’adagio tomista, suppone la natura, e non avrebbe senso desiderare la visione beatifica strettamente legata alla virtù teologale della carità, se nel soggetto agente mancasse la dovuta base della ricerca razionale di Dio e dell’esercizio delle virtù umane.
Oltre a ciò bisogna tener presente che la conoscenza di Dio basata sulla sapienza umana  costituisce un piano di accordo per il dialogo del cristianesimo con le altre religioni, le quali non conoscono la prospettiva della visione beatifica, mentre possono comprendere e desiderare la prospettiva di una felicità naturale fondata sulla conoscenza o contemplazione naturale di Dio.
Ci potremmo chiedere che senso e che significato ha la prospettiva biblica del “vedere Dio”. La si capisce se teniamo presente la concezione biblica del rapporto dell’uomo con Dio. Dio è visto, oltre che come fine ultimo, causa di tutto, sapiente, eterno, infinito e sommo bene, come avviene nelle altre religioni monoteiste, anche come Creatore amorevole, buono e provvidente, Signore, Padre, Re e Sposo. Dunque un Dio personale.
Un Dio dal quale ci viene ogni bene e non solo a noi, ma a tutto l’universo. Dio somma verità, sommo bene, somma bellezza. Un Dio quindi amabilissimo e che infinitamente ci ama. Vedere Dio vuol dunque dire contemplare il suo “volto”, in linguaggio scolastico usato dal dogma: vedere immediatamente ed intuitivamente l’ “essenza” di Dio, secondo la definizione di Benedetto XII del 1336.
Non è forse cosa naturale e desiderabile tra due persone che si amano il contemplarsi a vicenda? L’immagine biblica così semplice e profonda della beatitudine celeste è tutta qui. Essa è presa dai rapporti umani d’amore, di amicizia, di fraternità, di confidenza, di dialogo, di fiducia, di intimo scambio o comunione di idee e di sentimenti. Non siamo creati a sua immagine? Ebbene, perché non immaginare il rapporto con Lui sul metro del rapporto tra di noi, salve ovviamente le debite proporzioni? La dottrina della visione beatifica si risolve in questa immagine così facile da comprendere per chi ama il rapporto umano in profondità.
Si potrebbe obiettare che il desiderio di vedere Dio è un desiderio naturale perché è naturale per la ragione umana, una volta scoperta la causa, interrogarsi sulla sua essenza. Ma a parte che la ragione conosce le cause universali ed astrattamente, non senza concetto, mentre la visione beatifica è visione immediata e sperimentale, senza mediazione concettuale, di una Persona infinita concretamente presente, il caso della causa prima è specialissimo e in tal caso la ragione comprende bene che si tratta di una causa che trascende infinitamente i suoi limiti di comprensione, per cui non sente alcun desidero di sapere, se essa resta sobria e non avanza pretese impossibili.
Se poi Dio avesse dato all’uomo un desiderio naturale irrealizzabile, vorrebbe dire che Dio crea delle cose vane o imperfette, il che è del tutto sconveniente alla sua infinita sapienza e potenza: i desideri che Dio crea sono per loro natura esaudibili. Se quindi un desiderio naturale non si può realizzare, ciò non dipende da Dio, ma dall’uomo che è ferito dalle conseguenze del peccato originale. I desideri naturali sono di per sé esaudibili con mezzi naturali perché il loro fine è naturale. Diversamente, bisognerebbe dire che il soprannaturale, se fosse necessario per soddisfare quei desideri, non è più gratuito, ma dovuto alla natura.
Dunque il desiderio della visione beatifica può essere sensato e legittimo solo sulla base della fede e della grazia, ossia dev’essere a sua volta un desiderio soprannaturale, come osservò giustamente il Card.Gaetano commentando alcuni passi di S.Tommaso[1], che sembrerebbero favorevoli al desiderio naturale del soprannaturale, cosa che è assurda e del tutto estranea al contesto generale del pensiero di S.Tommaso, del quale si sa bene quanto egli tenga alla distinzione del naturale dal soprannaturale, distinzione molto delicata poiché in ultima analisi mette in gioco la distinzione fra il Creatore e la creatura, per cui la confusione dei piani porta al panteismo.
E difatti questo è il caso della concezione rahneriana del rapporto fra naturale e soprannaturale. Per lui il fine dell’uomo è esclusivamente soprannaturale, la visione beatifica, mentre la natura umana è una semplice possibilità di divinizzazione priva di termini propri ed oggettivi, il che le fa perdere la sua consistenza ed autonomia ontologica rendendo la grazia non più un dono gratuito, ma un complemento necessario della natura.
Egli concepisce l’uomo come pensante pensato o come autocoscienza, sul modello cartesiano, come “ente soprannaturale”, che essenzialmente è “potenza obbedienziale” in tendenza (“autotrascendenza”) verso Dio come “orizzonte della trascendenza umana”, senza tener conto delle scelte od oscillazioni tra bene e male proprie del libero arbitrio ed dell’esistenza del peccato, sicchè per Rahner la grazia pur restando, non si sa come, “gratuita”, però è data “necessariamente” ed è “obbligatoria” ed universalmente presente in tutti, sicchè tutti si salvano e la grazia non scompare col sorgere del peccato, ma convive con esso e non si acquista partendo da una situazione di peccato, ma la si possiede sempre e necessariamente in modo “trascendentale” ed “atematico”, quali che siano le idee religiose o atee, pie o empie del soggetto umano (“cristianesimo anonimo”).
Concludiamo con le famose parole di S.Agostino: “Fecisti nos ad te et cor nostrum inquietum est, donec requiescat in Te”. Questo è vero, ma è urgente fare un’opera di coscientizzazione di questo fatto, perché in realtà il “vedere Dio” nel senso cattolico è una prospettiva che spesso sembra non interessare nessuno. Né il rahnerismo al di là delle espressioni altisonanti, può venirci incontro perchè chi dimostra troppo non dimostra nulla. Occorre che l’Homo faber sia ordinato alle Homo sapiens: è questa la vera prospettiva dell’uomo che risulta da una sana antropologia e dalla sapienza cristiana.
La pretesa ingenua o forse interessata di Rahner di fare di ogni uomo un impetuoso e fervente aspirante, benchè inconscio, all’unione mistica, è il segno di un grave fraintendimento, che scambia la libera e responsabile scelta di Dio con l’irruenza deterministica ed incontrollabile di un soffione boracifero che erompe irrefrenabile e a getto continuo dai meandri della terra. Per stimolare il desiderio di Dio in modo veramente saggio e conveniente, occorre invece una rinnovata apologetica e una nuova evangelizzazione, come ci esorta il Papa, tale da svegliare nell’uomo il bisogno della realtà, della verità e del bene, e su questa base naturale, costruire col soccorso della grazia e nel solco della tradizione della Chiesa, la proposta evangelica del cammino verso la casa del Padre.

“Un matrimonio”: un film molto apprezzato e che rivela l’attaccamento degli italiani alla famiglia tradizionale


Si conclude questa sera la messa in onda di Un matrimonio, un lungometraggio del regista bolognese Pupi Avati che Rai 1 ha trasmesso in sei puntate.
Recentemente Marianna Ninni – su La Nuova Bussola Quotidiana – ne riassumeva la trama con queste parole: “È il giorno delle nozze d’oro per Francesca e Carlo Dagnini e mentre i due ripercorrono la navata sulle note della marcia nuziale e sotto gli occhi commossi di tutti i figli, Anna Paola Dagnini comincia a raccontare la loro storia. Catapultati a Sasso Marconi nel 1948 facciamo subito la conoscenza della giovanissima Francesca (Micaela Ramazzotti) che in una gita al fiume si innamora a prima vista di Carlo (Flavio Parenti). Inizia così la travagliata avventura di due ragazzi che, pur appartenendo a due mondi sociali diversi, sono in cerca delle stesse cose. Lei è figlia di una famiglia popolare mentre lui è il figlio benestante di un produttore di camicie ormai in fallimento e con il triste vizio del gioco. I due ragazzi si conoscono per caso quando Francesca inizia a lavorare come commessa nel negozio del padre di Carlo. Da lì in poi non mancheranno le occasioni per approfondire la loro conoscenza e per cominciare a costruire un rapporto che cresce e matura in quel periodo storico segnato da numerosi cambiamenti sociali e culturali che hanno caratterizzato il nostro Paese. I 50 anni d’Italia scorrono sullo sfondo e sono raccontati sempre attraverso le vicende dei diversi protagonisti che circondano Carlo e Francesca”.
Un matrimonio di Pupi Avanti è un inno alla famiglia tradizionale, alla fedeltà, alla stabilità, all’amore capace di andare oltre il sentimentalismo… tutti valori che nella società odierna sono sempre più bistrattati, in nome della libertà e del relativismo.
Ma siamo sicuri che la gente comune sia veramente a favore dei registri delle unioni civili, del cosiddetto ‘matrimonio omosessuale’, del divorzio breve, dell’utero in affitto e via discorrendo? O forse queste istanze hanno tanto audience solamente in quanto veicolate da lobby potenti, ma nella realtà non rispecchiano il pensiero della maggior parte degli italiani?
Questa è l’idea che si è fatto il regista Avati, che in una lettera inviata al Direttore del Corriere della Sera ha scritto: “Questa straordinaria opportunità offertami da Rai Fiction [di mandare in onda Un matrimonio, ndr] si è tramutata in una cartina di tornasole, rivelandomi una porzione del Paese insospettabile. Dai segnali di apprezzamento pervenutici si evince un desiderio diffuso di rassicurante normalità, emerge un Paese formato da migliaia di famiglie ahimè troppo ‘ordinarie’ perché qualcuno avverta il dovere di dar loro voce. Famiglie non accumunate da una stessa identità politica, ma certamente da una stessa identità morale.Famiglie che hanno resistito e ancora resistono ai tanti violentissimi attacchi di chi tenta irresponsabilmente di minarne la compattezza. […] la risposta non ci viene solo da coloro che possono essersi riconosciuti [nella storia del film, ndr] per ragioni anagrafiche, ma anche da moltissimi giovani che esprimono la stessa necessità di punti di riferimento rassicuranti. […] La famiglia italiana, restituita alla sua centralità, è il nostro patrimonio autentico. Affermarlo con azioni concrete è imprescindibile nei riguardi di un auspicabile new deal“.
La rinascita dell’Italia non può che passare dalla famiglia.
Famiglia intesa quale luogo della generazione della vita. Famiglia intesa quale sorgente primaria dell’educazione ai valori del vivere comune, desunti dalla grande storia del cristianesimo. Famiglia intesa qualecellula stabile e sicura, dove poter maturare la propria identità. Famiglia intesa quale istituto in grado di dareradici e, nel contempo, di slanciarsi con speranza nel futuro

La Santa Sede durante la Shoah. Il Papa riapre gli archivi vaticani



Nella familiarità nata tra cattolici ed ebrei per far fronte alla persecuzione nazista in Italia

(Anna Foa) 
Gli studi degli ultimi anni stanno mettendo sempre più in luce il ruolo generale di protezione che la Chiesa ha avuto nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista dell’Italia. Da Firenze, con il cardinal Dalla Costa su cui si tiene questo convegno, proclamato Giusto nel 2012, a Genova con don Francesco Repetto, anch’egli Giusto, a Milano con il cardinal Schuster, e via via fin naturalmente a Roma dove la presenza del Vaticano, oltre all’esistenza delle zone extraterritoriali, consentì il salvataggio di migliaia di ebrei.
Proprio a proposito di Roma il lavoro recente di Andrea Riccardi ha messo in luce molti aspetti importanti di questa vicenda, dalle modalità con cui fu portata avanti l’opera di ricovero e salvataggio dei perseguitati, che erano tali da non poter essere il frutto soltanto di “iniziative dal basso” ma erano chiaramente coordinate oltre che consentite dai vertici della Chiesa, al fatto che essa non si limitava agli ebrei, più a rischio degli altri, ma si estendeva a tutti coloro che erano in pericolo (la mezza Roma che nascondeva l’altra mezza), al fatto evidente che i nazisti erano ben consapevoli di quello che succedeva nei conventi: la partita si giocava sul filo del rasoio e non riguardava solo la possibilità di dar rifugio agli ebrei, ma il rapporto tra Chiesa e nazisti, e cioè la possibilità che il regime nazista ponesse d’un colpo fine alla presenza di uno Stato neutrale, il Vaticano, nel cuore della Roma occupata. Si cancella così l’immagine proposta negli anni Sessanta di un Papa indifferente alla sorte degli ebrei o addirittura complice dei nazisti.
Antonio Berti, bozzetto per una statua mai realizzata di Pio XII (1961)
Vorrei mettere qui in rilievo che questa più recente immagine dell’aiuto prestato agli ebrei dalla Chiesa nasce non da posizioni ideologiche filocattoliche, ma soprattutto da ricerche puntuali sulla vita degli ebrei durante l’occupazione, dalla ricostruzione di storie di famiglie o di individui. Dal lavoro sul campo, insomma. Il rifugio nelle chiese e nei conventi emerge in continuazione dai racconti dei sopravvissuti, percorre come un filo rosso le testimonianze orali raccolte negli anni in Italia (come il corpo vastissimo delle testimonianze di ebrei italiani rese alla Shoah Foundation), si ritrova presente nella maggior parte delle memorie dei contemporanei. È raccontato come un dato di fatto, appartiene al campo delle evidenze, con tutte le diversità delle situazioni, dai conventi che chiedono una retta a quelli che accolgono gratis gli ebrei, che a loro volta danno una mano nel lavoro quotidiano come nel caso delle ragazze ebree che aiutano a fare scuola ai bambini nella scuola delle Maestre Pie Filippini a Roma Ostiense, raccontato da Rosa Di Veroli. È insomma un’immagine che è il frutto non del dibattito sul tema Chiesa e Shoah ma anche e soprattutto della ricerca volta ad illuminare la vita e il percorso degli ebrei sotto l’occupazione nazista.
La dibattuta quaestio storiografica su Pio XII e gli ebrei ha per molti decenni frenato la ricerca e spostato sul terreno ideologico ogni tentativo di fare chiarezza sui fatti storici. Penso che per fare storia del rapporto della Chiesa con gli ebrei nell’Italia occupata sia innanzi tutto necessario sgombrare il campo da questa questione. Cioè, la domanda principale non può essere quella del rapporto tra lo “spirito profetico” di un Papa e i compromessi diplomatici di un altro Papa, ma quella su quanto e fino a che punto e anche con quante opposizioni interne la Chiesa e il Papa fossero alla guida dell’opera di salvataggio degli ebrei italiani. Le due questioni sono distinte e vanno, io credo, tenute distinte.
L’indagine sulle modalità concrete dell’aiuto agli ebrei, sulla presenza degli ebrei nei conventi e nelle chiese, sulla vita degli ebrei dentro i rifugi ecclesiastici, comincia a mettere in luce un aspetto su cui, mi sembra, poco si è riflettuto finora, quello del cambiamento di mentalità che ne può essere derivato, un tema su cui qualche spunto si può trovare nel libro di Andrea Riccardi su Roma. Infatti, è vero che ebrei e cristiani avevano convissuto per secoli, tra le mura dei ghetti e nelle antiche giudecche, in Italia e particolarmente a Roma, ma questa convivenza aveva raramente coinvolto degli ecclesiastici. Ora, di necessità per l’urgenza della persecuzione, preti ed ebrei dividevano lo stesso cibo. Le donne ebree passeggiavano nei corridoi dei conventi di clausura, gli ebrei imparavano il Padre Nostro e si infilavano la tonaca come precauzione in caso di irruzioni tedesche e fasciste. Rosa Di Veroli, richiesta di pregare insieme con gli altri in chiesa, lo faceva ma recitando sottovoce lo Shemà. C’era un’effettiva speranza da parte cristiana di toccare il cuore indurito degli ebrei e spingerli al battesimo? E quegli ebrei che si battezzarono, lo fecero in seguito ad una vera richiesta o per il fascino di un mondo che non conoscevano e che offriva loro protezione? E ci viene in mente la Lia Levi di Una bambina e basta, attratta per un breve momento dal battesimo. Parliamo ovviamente dei casi di conversione nei conventi, non di quelle conversioni, vere o simulate che fossero, fatte nel 1938 nella speranza di evitare i rigori delle leggi razziste, quando il cardinal Schuster battezzava all’alba gli ebrei in Duomo e i giornali antisemiti più radicali, con Farinacci, vedevano in questi battesimi “il cavallo di Troia degli ebrei nella società ariana e cristiana“.
Tutto questo mette certamente in moto nelle due parti esitazioni e timori nei confronti di un rapporto tanto stretto e quotidiano. Nei sacerdoti e soprattutto nelle suore questi timori possono prendere la strada dell’impulso verso la conversione, inserendosi così su un filone più consolidato e tradizionale di rapporto. Così, la quotidianità e l’attenzione trovano giustificazione e conforto nella speranza di portare un ebreo al battesimo. Negli ebrei, invece, il timore direi atavico di essere spinti verso la conversione porta talvolta (emergono casi del genere nella documentazione orale) a non prendere nemmeno in considerazione l’idea di trovare rifugio in un’istituzione ecclesiastica. Ma può succedere che nulla di tutto questo si realizzi. Che dire, a Roma, della chiesa di San Benedetto al Gazometro, dove molti ebrei trovarono rifugio, e del suo parroco allora giovanissimo, don Giovanni Gregorini, che trovava il tempo di fare ogni giorno due chiacchiere con uno dei rifugiati ebrei, uomo di una certa età e molto religioso, parlando con lui delle rispettive religioni, e dei loro rapporti? Qui, dalle due parti, c’è rispetto reciproco e curiosità dell’altro.
Insomma, io credo che questa familiarità nuova e improvvisa, indotta senza preparazione dalle circostanze, in condizioni in cui una delle due parti era braccata e rischiava la vita ed era quindi bisognosa di maggior “carità cristiana”, non sia stata senza conseguenze sull’avvio e sulla recezione del dialogo. Un dialogo molto più tardo, certo, e avviato soprattutto a livello teorico (pensiamo a Jules Isaac e all’insegnamento del disprezzo), mentre questo ci appare come un dialogo dal basso, fatto di pasti consumati insieme e di discorsi senza pretese, anche per superare le ansie di un rapporto sconosciuto fino a quel momento. Così, le suore di un altro convento romano aggiungevano il lardo alla zuppa comune solo dopo averla distribuita alle ebree rifugiate da loro. Anche questa è una forma di dialogo dal basso, mi sembra.
Nel primo dopoguerra, nel momento in cui prevaleva la rimozione, questo processo dialogico è stato in parte bloccato, da una parte perché gli ebrei erano intenti a ricostruire il proprio mondo e la propria identità dopo la catastrofe, dall’altra perché i cattolici sembravano esser tornati sulle posizioni tradizionali in cui la speranza della conversione era più forte del rispetto. È forse questa chiusura dei primi anni dopo la Shoah ad impedire lo sviluppo di quel dialogo dal basso, alla pari di quello ai livelli più alti, come dimostra il fallimento dell’incontro di Jules Isaac con Pio XII. Comunque fosse, agli inizi degli anni Sessanta, con Il vicario di Hochhuth, su questo processo sarebbe stata proiettata l’ombra della leggenda nera di Pio XII, con il risultato di intralciare e opacizzare la memoria e il peso di quel primo percorso comune. Oggi è il momento giusto per riprendere a indagarlo.
L'Osservatore Romano

lunedì 20 gennaio 2014

Ammazzano i bimbi Addio codice d'onore


Lunedì 20 Gennaio 2014
MAFIOSI SENZA ALIBI

Non guardano alla carta d’identità gli uomini di mafia. Che sia vecchio o bambino, adulto o giovane, uomo o donna. Quel che conta è ammazzare, togliere vite senza rimorsi, distruggere famiglie per appianare un torto. Tre corpi carbonizzati dentro un’auto sono stati trovati ieri a Cassano allo Ionio, in provincia di Cosenza. La macchina data alle fiamme era stata abbandonata dietro un rudere lungo una strada sterrata, in una zona di campagna difficile da raggiungere. Tra i corpi quello del piccolo Nicola, di appena tre anni. Per gli inquirenti le tre persone sarebbero state prima uccise e poi bruciate. Forse una vendetta della ‘ndrangheta maturata nel giro della criminalità organizzata che gestisce lo spaccio della droga, visto che sia il nonno che i genitori del piccolo avevano precedenti (di carcerazione) per reati connessi al commercio illegale di stupefacenti. O chissà quale altro movente da cercare tra le pieghe di una storia nera.
Racconta la vulgata che la mafia ha un codice d’onore, che le regole si rispettano, che le donne non si toccano, che i bambini non si ammazzano. E allora come spiegarsi le 150 donne uccise o indotte al suicidio per faide, per vendette familiari e per timore di rivelazioni? O gli oltre 30 giovanissimi sterminati soltanto nell’ultimo decennio, stando ai numeri pubblicati qualche anno fa da Libera? Di “sgomento e sconfitta” ha parlato a caldo il vescovo di Cassano, monsignor Nunzio Galantino. Che non ha risparmiato un richiamo sferzante rivolto a tutti: “Accanto a uomini e donne che da noi si spendono in maniera ammirevole e coraggiosa, c’è anche gente che ritiene eventi come quello che ha visto tre vittime bruciate come qualcosa che c’interessa poco. No! Non può essere così! E chi la pensa così sarà pure esperto di cerimonie, buon intrattenitore di gruppi e solerte organizzatore di eventi più o meno confinanti con la religione, ma avrà capito davvero poco di Vangelo!”. Non ci sono alibi, per nessuno.

agensir.it

Servitori, non padroni, della Chiesa!


lunedì 20 gennaio 2014

Il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo Compendio ci offre quelle verità, la cui consistenza persisterà anche nel cielo
«Che cosa possiamo imparare noi da san Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura. Dice san Girolamo: “Ignorare le Scritture è ignorare Cristo” (Commento ad Isaia). Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. Questo nostro dialogo con essa deve avere sempre due dimensioni: da una parte, deve essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio per ciascuno. Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio, (del Verbo) che si rivolge anche a noi, e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. Ma per non cadere nell’individualismo dobbiamo tenere presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva. Il luogo privilegiato della lettura e dell’ascolto della Parola di Dio è la Liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto oggi è modernissimo, domani sarà vecchissimo. La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l’eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l’eterno, la vita eterna.
E così concludo con una parola di san Girolamo a san Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l’eternità, la vita eterna. Dice san Girolamo: “Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità, la cui consistenza persisterà in cielo” ( Ep. 53,10)» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 7 novembre 2007].

Nella Chiesa, la Sacra Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero dell’interpretazione autentica, conferito agli apostoli, appartengono l’uno all’altra in modo indissolubile. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente, continua cioè della Tradizione della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò che essi hanno da dirci è importante e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per comprendere quel processo vivente con cui in continuità o Tradizione è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci, nell’interpretazione quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa, di quella affidata a Pietro, in continuità a tutti i suoi successori e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi.
Il potere conferito da Cristo a Pietro e in continuità a tutti i suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere personale sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Parola. Egli, quando intende ed esercita il magistero, non deve proclamare come magistero le proprie idee opinabili, contestabili come per tutti i fedeli, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa in obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento operato oggi soprattutto dalla persecuzione dei mezzi di comunicazione sociale, come di fronte ad ogni opportunismo. Lo fecero sia Giovanni Paolo II e sia Benedetto XVI, quando davanti a tutti i tentativi di vedere l’uomo solo naturalmente senza alcun riferimento a Dio e quindi trattabile come un animale, senza libertà, richiamarono in modo inequivocabile l’inviolabilità di ogni essere umano, l’inviolabilità di ogni vita umana concepita da un uomo e una donna, educata da un papà e una mamma, e questo dal concepimento fino alla morte naturale. La libertà dragoniana di dissolvere la grammatica dell’essere creaturale di maschio – femmina, la non accettabilità di ogni fecondazione artificiale, l’orrore di legittimare l’uccisione di un innocente, l’egoismo del potere finanziario con drammi sociali, non è una vera libertà, ma è una tirannia che riduce l’essere umano in schiavitù. Papa Francesco più volte si dichiara figlio della Chiesa quindi consapevole di essere, nelle sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi o Tradizione, alle interpretazioni magisteri ali vincolanti, cresciute lungo il cammino pellegrinante di tutti i successori di Pietro e in comunione degli apostoli, della Chiesa. Così il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella sua purezza. Così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle mode. E in questo orizzonte di comunione e di fede tutti possono offrire il proprio contributo, concretamente in prospettiva del Sinodo straordinario sulla Famiglia.
La Cattedra di Pietro è simbolo della potestà di insegnamento in continuità dinamica di tutti i papi fino a Papa Francesco: è una potestà di obbedienza e di servizio affinché la Parola di Dio – la sua verità! – possa risplendere tra di noi, indicandoci la strada.

culturacattolica

Unità cristiani. Mons. Spiteris: con ortodossi confronto su primato petrino e sinodalità


Rapporto tra primato di Pietro e “sinodalità”. È uno dei punti più avanzati del confronto tra teologi cattolici e ortodossi e anche uno dei più delicati all’interno del dialogo ecumenico tra le due Chiese. Lo conferma l’arcivescovo di Corfù, mons. Ioannis Spiteris, membro della Commissione mista teologica per il dialogo cattolico-ortodosso, in prima linea in queste giornate di preghiera per la Settimana dell’unità dei cristiani. L’intervista è di Fabio Colagrande:

R. – Il dialogo con gli ortodossi ha avuto come risultato non di scoprire la sinodalità – perché la sinodalità non può essere ignorata, è all’interno della struttura stessa della Chiesa, l’ha voluta Nostro signore – ma almeno di avere delle istituzioni per poter vivere la sinodalità in armonia con il primato del Papa. Questo, naturalmente, non è facile. Bisogna trovare un modo e questo è certamente ciò che il Papa, i vescovi vogliono: la coesistenza del primato di Pietro e di un organo sinodale permanente che non sia solo un organo sinodale – il Sinodo dei vescovi, che si riunisce ogni tanto e dà dei consigli al Papa – ma una sinodalità fattiva, efficace, che assieme al vescovo di Roma decida per tutta la Chiesa in via ordinaria. Quindi, bisogna trovare un modo. Non è facile, però il tema centrale di questi ultimi incontri con la Commissione mista è appunto primato e sinodalità. Abbiamo già preparato un testo che deve essere approvato dalla Commissione nel suo insieme, nella riunione che si terrà dal 15 al 23 settembre di quest’anno a Novi Sad, in Serbia. Speriamo si possa arrivare ad avere un testo che sia di aiuto anche alle Chiese.

D. – Lei ci parla delle difficoltà del cammino ecumenico e per superarle il Papa ci ricorda l’importanza della preghiera…

R. - Sì, ci sono delle difficoltà, però ci sono anche delle cose molto belle. Il Concilio Vaticano II nel documento Ut unum sint parla della purificazione della memoria storica. Credo che il problema siano le incrostazioni del passato che ancora oggi hanno una loro influenza, piuttosto che i veri problemi dogmatici. In fondo, rimane sempre vero: sono di più le cose che ci uniscono che quelle che ci separano. Ci vuole una conversione del cuore, un cambiamento di mentalità per accettare l’altro anche nella sua differenza. Le differenze non sono un contraddittorio, sono complementari, lo ripetiamo spesso. E qui, in Grecia, devo dire che c’è una grande simpatia per Papa Francesco. Quasi ogni giorno i giornali parlano di lui, questo è positivo: cambia una mentalità, un modo di vedere l’altro. Credo che lo Spirito Santo lavori. Non bisogna scoraggiarsi.


radiovanticana

Il Papa: il nostro è il Dio delle sorprese, accogliamo la novità del Vangelo



La libertà cristiana sta nella “docilità alla Parola di Dio”. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Pontefice ha sottolineato che dobbiamo essere sempre pronti ad accogliere la “novità” del Vangelo e le “sorprese di Dio”. Il servizio di Alessandro Gisotti:

“La Parola di Dio è viva ed efficace, discerne i sentimenti ed i pensieri del cuore”. Papa Francesco è partito da questa considerazione per svolgere la sua omelia. E ha subito sottolineato che per accogliere davvero la Parola di Dio dobbiamo avere un atteggiamento di “docilità”. “La Parola di Dio – ha osservato – è viva e perciò viene e dice quello che vuole dire: non quello che io aspetto che dica o quello che io spero che dica”. E’ una Parola “libera”. Ed è anche “sorpresa, perché il nostro Dio è il Dio delle sorprese”. E’ “novità”:

“Il Vangelo è novità. La Rivelazione è novità. Il nostro Dio è un Dio che sempre fa le cose nuove e chiede da noi questa docilità alla sua novità. Nel Vangelo, Gesù è chiaro in questo, è molto chiaro: vino nuovo in otri nuovi. Il vino lo porta Dio, ma dev’essere ricevuto con questa apertura alla novità. E questo si chiama docilità. Noi possiamo domandarci: io sono docile alla Parola di Dio o faccio sempre quello che io credo che sia la Parola di Dio? O faccio passare la Parola di Dio per un alambicco e alla fine è un’altra cosa rispetto a quello che Dio vuole fare?”.

Se io faccio questo, ha soggiunto, “finisco come il pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, e lo strappo diventa peggiore”. E ha evidenziato che “quello di adeguarsi alla Parola di Dio per poter riceverla” è “tutto un atteggiamento ascetico”:

“Quando io voglio prendere l’elettricità dalla fonte elettrica, se l’apparecchio che io ho non va, cerco un adattatore. Noi dobbiamo sempre cercare di adattarci, di adeguarci a questa novità della Parola di Dio, essere aperti alla novità. Saul, proprio l’eletto di Dio, unto di Dio, aveva dimenticato che Dio è sorpresa e novità. Aveva dimenticato, si era chiuso nei suoi pensieri, nei suoi schemi, e così ha ragionato umanamente”.

Il Papa si è soffermato sulla Prima Lettura. Ha così rammentato che, al tempo di Saul, quando uno vinceva una battaglia prendeva il bottino e con parte di esso si compiva il sacrificio. “Questi animali tanto belli – afferma dunque Saul – saranno per il Signore”. Ma, ha rilevato il Papa, “ha ragionato con il suo pensiero, con il suo cuore, chiuso nelle abitudini”, mentre “il nostro Dio, non è un Dio delle abitudini: è un Dio delle sorprese”. Saul “non ha obbedito alla Parola di Dio, non è stato docile alla Parola di Dio”. E Samuele gli rimprovera proprio questo, “gli fa sentire che non ha obbedito, non è stato servo, è stato signore, lui. Si è impadronito della Parola di Dio”. “La ribellione, non obbedire alla Parola di Dio – ha affermato ancora il Papa – è peccato di divinazione”. Ed ha aggiunto: “L’ostinazione, la non docilità a fare quello che tu vuoi e non quello che vuole Dio, è peccato di idolatria”. E questo, ha proseguito, “ci fa pensare” su “cosa è la libertà cristiana, cosa è l’obbedienza cristiana”:

“La libertà cristiana e l’obbedienza cristiana sono docilità alla Parola di Dio, è avere quel coraggio di diventare otri nuovi, per questo vino nuovo che viene continuamente. Questo coraggio di discernere sempre: discernere, dico, non relativizzare. Discernere sempre cosa fa lo Spirito nel mio cuore, cosa vuole lo Spirito nel mio cuore, dove mi porta lo Spirito nel mio cuore. E obbedire. Discernere e obbedire. Chiediamo oggi la grazia della docilità alla Parola di Dio, a questa Parola che è viva ed efficace, che discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”.

radiovaticana




Belgio: conferenza della Comece in difesa della Domenica




“Domenica di riposo e lavoro dignitoso in Unione Europea”: questo il tema della conferenza organizzata dalla Comece (Commissione degli episcopati della comunità europea) per domani, presso la sede del Parlamento europeo a Bruxelles. Si tratta di una delle numerose iniziative dei vescovi del Vecchio Continente a favore del riposo domenicale, come giornata da dedicare al Signore e alla famiglia, portata avanti anche dall’Alleanza europea per la domenica (European Sunday Alliance). Nata nel 2011 proprio per tutelare la domenica come il giorno non-lavorativo in tutta Europa, questo coordinamento di diversi organismi – in cui rientra anche la Comece – vuole ricordare che alla base del modello sociale europeo ci deve essere innanzitutto l’uomo, e non il consumismo né l’economia. L’incontro di domani avrà inizio alle ore 9.00 e si concluderà alle 17.00 circa; tre le sessioni di lavoro in programma: “Lavoro dignitoso e domeniche non lavorative in tempi di crisi”, “Bilanciare famiglia, vita privata e lavoro – verso una vita sana e felice”, “Come la domenica non lavorativa aumenta la partecipazione civica e l’impegno nel volontariato”. Tra i partecipanti alla conferenza, mons. Ludwig Schwarz, portavoce dell’Alleanza europea per la domenica in Austria; il rev. Frank-Dieter Fischback, rappresentante della Kek (Conferenza delle Chiese europee) e Otto Meier, presidente del Movimento europeo dei lavoratori cristiani. 
(A cura di Isabella Piro)


Radio Vaticana 

Marinetti: un “cretino fosforescente” a Lourdes


Da Francesco Agnoli

Ci sono biografie che è interessante leggere, per stupirsi della pochezza che ha caratterizzato alcune epoche della storia. L’Ottocento italiano è il secolo della decadenza del nostro grande paese. Benchè si parli di Risorgimento, decadiamo da tutti i punti di vista: umano, politico, artistico, letterario, scientifico…

E alla fine sulla scena spuntano, come giusta punizione, i Mussolini, i D’Annunzio, i Marinetti… Personaggi che visti con gli occhi di oggi appaiono quasi caricaturali e grotteschi e che sono in tutto e per tutto figli di un rinnegamento e di un’ abiura. Rivoluzionari, si definiscono, tutti e tre, e come spesso accade dietro il rivoluzionario c’è il cialtrone e l’egocentrico.

A D’Annunzio e a Marinetti ha dedicato ottime biografie uno storico e giornalista come Giordano Bruno Guerri, che di questa tipologia di rivoluzionari libertini è grande ammiratore.

Ma è proprio anche leggendo queste narrazioni che viene da chiedersi come un popolo abbia potuto elevare simili personaggi a idoli e maestri. Prendiamo Marinetti, padre fondatore del futurismo, condannato dalla storia ad essere il meno celebre, suo malgrado, dei tre.

Guerri cerca di descriverlo come un uomo straordinario, avvolgendolo in un’atmosfera di eroismo e di grandezza. Ne viene fuori, invece, per usare un’espressione utilizzata da D’Annunzio, un “cretino fosforescente”, convinto di essere un genio assoluto proiettato nel futuro. Un cretino che dichiara di preferire alle cattedrali, i mercati coperti e le stazioni ferroviarie; al profumo dell’incenso, la puzza e il fumo delle ciminiere; alla musica dei grandi del passato, il rombo dei motori; all’inginocchiatoio di legno, il divano sfondato dalle serate lussuriose; alla famiglia, il libero amore; all’amor di patria, il tronfio nazionalismo guerrafondaio…

Leggere oggi Marinetti significa catapultarsi nell’età dei declamatori e dei tribuni che affondano le lame della loro gonfia retorica nel vuoto di ideali e di passioni vere dell’inizio Novecento italiano. Che propongono ai loro contemporanei, come valori su cui fondare la vita, surrogati in immediata scadenza; che cercano di affermare se stessi attraverso trionfi mondani di cui, incredibilmente, non sembrano scorgere, se non a tratti, la vacuità.

Così Guerri ci descrive Marinetti che, pur di far parlare di sé, compera ogni settimana duemila copie di una rivista morente, per tenerla in vita, dopo essersi accordato con il direttore affinché lo calunni, “anche con le panzane più grosse”; descrive un uomo, “sciocco, molto ricco e molto vanesio”, secondo Andrè Gide, che pur di ottenere successo valuta accuratamente il potere dei padri delle innumerevoli amanti; un uomo che predica l’amore libero, i figli di Stato, il nazionalismo, la guerra “sola igiene del mondo”, il fascismo più becero, sempre con la stessa convinzione di essere profeta.

Un uomo che, dopo aver fatto il rivoluzionario di professione, finisce calzato e vestito con i simboli del potere e della Accademia fascista, e che, per urlare al mondo che lui nonostante tutto è diverso, originale, unico, lancia una terribile crociata per l’abolizione della… pastasciutta, accusata nientemeno che di indurre “fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e pessimismo”. Siamo nel 1930 e il sedicente poeta di cui non si leggerebbe nulla da tempo, se non per obbligo scolastico, riesce ancora a far parlare di sé: i più normali rispondono vestendosi da Marinetti, e esibendosi “in pantagrueliche mangiate di pastasciutta”; altri, come i figli del duce, Vittorio e Bruno, accolgono l’urlo emancipatore, e a donna Rachele che scodella l’italica pastasciutta, rispondono in coro: “Noi siam figli della rivoluzione. Questi son piatti da vecchi borghesi”.

Questo Marinetti, che a tratti Guerri cerca, senza riuscirci, di descrivere come “felice”, aveva, come Mussolini e D’Annunzio, le sue radicate superstizioni, ma una fiera avversione alla Chiesa: del papa Pio X scriveva trattarsi di “carceriere della terra, sorcio mostruoso delle fogne del cuore, vecchio scarafaggio nutrito d’immondizia… fetido sterco nero e greve, caldo uscito dal mio sfintere di grande uccello d’Italia…”.

Tutto ciò non toglie che si possa rintracciare, anche nella biografia di Marinetti, un aneddoto interessante.

Narra Guerri, infatti, che il giovane futurista viaggiava in treno, quando salirono a bordo vari pellegrini diretti a Lourdes. Sul treno salì anche la bella Yvette, al seguito di una cugina in barella. Marinetti rimase colpito dalla ragazza, abbandonò gli amici e la seguì. A Lourdes accadde l’incredibile: “la cugina di Yvette, ‘ammalatissima malata’, d’improvviso spalanca ‘due occhi immensi verdi come un mare dopo molte scogliere’ e si alza guarita: ‘Ed era forse la vita oppure la volontà di Dio’. Tutti gridano al miracolo e Tom (cioè Marinetti, ndr) è turbato. Ha assistito a ‘un’autentica frattura del mondo fisico’ dice ai medici…”.

Ma Yvette è ormai persa, dietro i fatti eclatanti di cui è protagonista: Marinetti (che pure crede di aver visto un miracolo) decide di ripartire. Accade sempre così: i cretini fosforescenti non riescono a vedere intorno a sé nessuna luce, intenti come sono ad osservare la propria fatua fosforescenza.
Il Foglio, 17 gennaio 2013