mercoledì 2 aprile 2014

L’immagine di Chiesa nella Evangelii gaudium


Mercoledì, 02 Aprile 2014 10:13



di P. Aldino Cazzago ocd

A chi non è capitato di rimanere stupito davanti alla bella fotografia di un atleta ripreso mentre tenta di “scalare” il cielo nel salto con l’asta o si lancia verso il traguardo nella corsa dei 100 metri, la più emozionante dell’atletica leggera? Lo stesso atleta ripreso da fermo non avrebbe suscitato in noi la stressa meraviglia. Qualcosa di simile può essere detto anche della Chiesa: un conto è pensarla come una realtà ferma, forse un po’ statica e rinchiusa in se stessa, e un conto è vederla mentre si apre verso l’esterno, mentre, ad esempio nella figura di qualche santo, va verso il mondo che non conosce Dio come amore. Parlare di una Chiesa in movimento, in azione, è lo stesso che parlare di una chiesa segnata da uno stile missionario e che prende atto dell’urgenza di una nuova evangelizzazione. Forse non è irrilevante osservare che il termine “evangelizzazione” è usato per ben 80 volte lungo tutta la Evangelii gaudium.

Una Chiesa “in uscita”

Se si ha la pazienza di leggere tutta la Evangelii gaudium non si può che essere appunto catturati dall’immagine di una chiesa in movimento, “in uscita” come ripete per una decina di volte papa Francesco. Lasciando per un attimo in secondo piano la questione dell’identità della Chiesa (che cos’è), il papa ha posto invece in primo piano il tema del perché esiste la Chiesa, del suo fine, o, se vogliamo, della sua vocazione. Scrive:
«L’evangelizzazione obbedisce al mandato missionario di Gesù: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). […] Oggi, in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria» (nn. 19-20).

E al paragrafo n. 24 insiste ancora con più forza:

«La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano».

Senza il dinamismo insito in questa “uscita”, la stessa evangelizzazione, che è la principale missione della Chiesa, resta un’idea che ci si accontenta di affermare a livello teorico.
Concepirsi come realtà in “uscita” è utile alla Chiesa anche per un esame di coscienza sulla propria vita interna. Chi si appresta a un viaggio verifica che ciò che porta con sé sia necessario al cammino che sta per intraprendere e non sia invece un inutile peso o qualcosa che ormai ha fatto il suo tempo. Con semplici e incisive parole scrive papa Francesco:
«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (n. 27).

Cambiare abitudini - «stili, orari, linguaggio» - significa andare contro la facile tentazione di fotocopiare il passato, comporta fatica, voglia di rischiare e non aver timore di qualche insuccesso.
«La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, afferma il papa, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia». (n. 27).

Senza questa visione di una Chiesa “in uscita” la paura prevarrà su tutto il resto:
«Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. Ripeto qui per tutta la Chiesa ciò che molte volte ho detto a sacerdoti e laici di Buenos Aires: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (n. 49).

“In uscita” perché missionaria

Ecco allora la domanda: «Perché la Chiesa deve pensarsi “in uscita”»? La risposta, pur nella sua semplicità, è più dimenticata di quanto non si pensi. La Chiesa deve pensarsi “in uscita” perché è missionaria e il cuore e il fine di ogni missione è l’annuncio del Vangelo agli uomini. Questa missionarietà non è qualcosa che si aggiunge a lei per così dire dall’esterno, è invece parte della sua stessa natura o vocazione. Dire Chiesa è la stessa cosa che dire missione, e dire missione equivale a dire abbraccio di carità verso il mondo. Scrive papa Francesco:
«Come la Chiesa è missionaria per natura, così sgorga inevitabilmente da tale natura la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove» (n. 179).

E in apertura, dopo aver ricordato l’affermazione dell’enciclica Redemptoris missio sull'attività missionaria come «massima sfida per la Chiesa» si era così chiesto: «Che cosa succederebbe se prendessimo realmente sul serio queste parole?». La sua risposta suonava in questi termini: «Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa» (n. 15).

La missione come «paradigma di ogni opera»

Che cosa significa che la missionarietà è il «paradigma di ogni opera nella Chiesa»? Significa che la Chiesa è anzitutto consapevole di essere stata lei stessa per prima oggetto dell’amore di Dio in Gesù Cristo e ora è mossa dal desiderio di comunicare agli uomini questo stesso amore. La comunità «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa!» (n. 24). Con un’immagine non priva anche di un tocco poetico il papa afferma:
«L’intimità della Chiesa con Gesù è un’intimità itinerante, e la comunione “si configura essenzialmente come comunione missionaria” (Christifideles laici n. 32)» (n. 23).

Molto più avanti egli scriverà che «la prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più» (n. 264).
Senza il legame con Cristo la missionarietà perde la sua ragion d’essere e la comunione con Cristo, priva di forza evangelizzatrice, diventa intimismo e fuga dalla realtà:
«Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore» (n. 262).

Se «l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa», allora essa non può che essere: «una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa» (n. 27), una «pastorale in chiave missionaria» che si stacca dal «comodo criterio pastorale del “si è sempre fatto così”» (n. 33 e n. 35), una «conversione missionaria» (n. 30), una «discepola missionaria» che cresce «nella sua interpretazione della Parola rivelata» (n. 40), una «creatività missionaria» (n. 28), una «fecondità missionaria» da offrire a tutti (n. 89) e una «gioia missionaria» che nasce dalla «gioia del Vangelo» (n. 21).
Al termine della lettura dell’esortazione si capisce con estrema facilità quale sia la principale preoccupazione di papa Francesco nei confronti della Chiesa: che essa non viva e comunichi più la «gioia del Vangelo» perché si lasciata «rubare la forza missionaria» (n. 109).

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