Franco Michelini-Tocci
Teresa d’Avila è una personalità che
merita di essere considerata con attenzione da chiunque abbia interesse
per la vita spirituale. Certo, un cristiano troverà nelle sue opere un
linguaggio che gli è più familiare di altri, ma anche un buddhista o un
induista, o chiunque altro, se vorrà cogliere il fondo del suo
messaggio, troverà qualcosa di utile alla sua pratica, soprattutto dal
punto di vista psicologico. Teresa è stata infatti, come lei stessa ci
dice alla fine dell’autobiografia, una grande maestra spirituale, con
una pratica di insegnamento affinata per tutta la vita. Una vita durata
67 anni, che si concluse nell’ottobre del 1582.
La prima cosa che colpisce è la sua
personalità, molto poco corrispondente alla visione edulcorata che la
tradizione agiografica stende come un sudario su tutti i grandi
canonizzati, col risultato di renderli lontani e inaccessibili, anziché
farne modelli di vita per tutti. La chiesa sembra escludere l’idea che
un santo possa sbagliare, cioè che possa essere umano, e così ogni volta
che Teresa denuncia serenamente le sue colpe e le sue manchevolezze,
troviamo a pie’ di pagina la nota di un pio commentatore impegnato a
testimoniare con fervore che si sa bene che “non commise nessun peccato
mortale”. Ma io preferisco credere a quello che Teresa, al pari della
maggioranza degli altri santi, ci dice non soltanto sui propri sbagli,
ma sugli sbagli che inevitabilmente possono toccare anche alle grandi
personalità spirituali, almeno finché sono uomini e donne viventi sulla
terra. Ecco le sue stesse parole:
Queste anime hanno vivi desideri e
ferme risoluzioni di non commettere imperfezioni di sorta, ma non senza
che per questo lascino di commetterne molte, e anche peccati. Non però
con avvertenza…Parlo dei peccati veniali, non dei mortali, dai quali si
sperano libere, benché non con molta sicurezza, essendo possibile che ne
abbiano qualcuno di occulto. 1
Meriterebbe un cenno particolare, per
cogliere meglio la personalità di Teresa, anche un suo dono specifico,
che fu quello della relazione interpersonale, in particolare la sua
capacità di affetti profondi, di devozioni assolute, di slanci che la
portavano in estasi, tutti segni del suo carattere impulsivo, generoso,
poco incline a rispettare le forme stereotipate della vita monastica, ma
il discorso sarebbe lungo e ci distoglierebbe dal dedicare tutta
l’attenzione a quello che ella chiamò “il metodo di orazione”, cioè la
pratica seguita per giungere al momento culminante dell’“unione
trasformante”. Nella sintesi che segue terremo conto, soprattutto, di
ciò che può maggiormente interessare un praticante di meditazione.
Bisogna dire intanto che l’“orazione” di
Teresa ha poco a che fare con quello che la parola suggerisce. Ella
infatti dichiara che aveva difficoltà con la preghiera verbale e
immaginativa, difficoltà che fu poi superata dalla lettura di Osuna, un
contemplativo suo contemporaneo, che suggeriva un metodo di preghiera
basato essenzialmente sul raccoglimento. L’altra difficoltà consistette
nel conflitto interiore nel quale visse i primi vent’anni della sua vita
religiosa. Questo conflitto faceva sì che ella portasse nel
raccoglimento tutti i problemi della sua vita non integrata, rivolta al
mondo e non all’Assoluto. Alcune sue affermazioni fanno pensare che le
maggiori difficoltà le derivassero da un autocompiacimento narcisistico,
che creava naturalmente un ostacolo al non attaccamento e
all’abbandono. Confessa ella infatti, con la sua tipica lucida
sincerità:
Dio mi ha dato la grazia di piacere a chiunque.
Ho sempre cercato di contentare chiunque, nonostante la ripugnanza che a volte sentivo. 2
Quando infine, dopo un travaglio durato vent’anni, davanti a una statua dell’Ecce homo,
immagine della totale rinuncia a se stessi, ebbe un’intuizione profonda
di sé che le fece cambiare orientamento, incominciò per lei il periodo
in cui la pratica dell’‘orazione’ le manifestò tutti i grandi doni che
la resero famosa.
Il metodo da lei praticato è esposto nelle sue opere principali, in modo più sistematico nel Castello interiore e nel Cammino di perfezione e, con un linguaggio più immediato, nella Vita scritta da lei stessa.
Le prime considerazioni riguardano due
fatti. Il primo è che questo tipo di lavoro interiore non è per tutti e
che occorre una predisposizione, il secondo che è necessario un certo
tipo di sforzo, maggiore all’inizio e sempre più leggero man mano che si
procede, fino a cessare del tutto nel grado più alto. Questo lavoro
consiste essenzialmente nel cercare di calmare l’irrequietezza della
mente che è data, nel linguaggio classico di Teresa, dalla dispersione
delle potenze, o facoltà, dell’anima: intelletto, memoria e volontà (noi
potremmo dire, con un linguaggio oggi più accessibile: pensieri,
ricordi e affetti). Tutto dunque nasce dall’osservazione, tipica dei
mistici di tutti i paesi, che queste facoltà normalmente non sono
soggette a controllo e, agendo a loro piacere, mantengono la psiche in
stato di agitazione e di disordine, rendendo impossibile ogni tentativo
di instaurare la pace e la calma interiori. Più precisamente, si
potrebbe dire che lo stato disordinato in cui si trovano impedisce
l’accesso a quel ‘fondo’ dell’anima (come per primi lo chiamano i
mistici tedeschi) in cui regna sempre la quiete divina.
Raccoglimento, prime ‘stazioni’, prima acqua
Per ottenere questo risultato, lo sforzo
iniziale consiste nel ‘raccoglimento’, che è un modo per tenere
occupata la mente su un unico oggetto, evitando che si disperda come fa
di solito. L’oggetto, indicato da Teresa, è in realtà più d’uno, ma
questi si possono ridurre a tre o quattro principali. Al primo posto
possiamo mettere quello più tradizionale per un cristiano, che è la
meditazione, ossia l’attenta osservazione di un episodio importante
della Scrittura, come per esempio la passione di Cristo. Tuttavia, in
maniera piuttosto libera e originale, Teresa non si sogna nemmeno di
dire che questo sia l’unico modo e ne suggerisce almeno altri tre. Uno
consiste nella lettura di un libro, soffermandosi di tempo in tempo su
qualcosa che attragga in modo particolare l’attenzione, l’altro nella
meditazione di una propria mancanza o difficoltà e il terzo nella
contemplazione della natura. “Per me bastava anche la vista dei campi,
dell’acqua e dei fiori”, ci dice. 3 Poiché però sappiamo che questi
inizi sono caratterizzati da sforzo, dobbiamo pensare che si debba
esercitare una buona dose di volontà per mantenere l’attenzione
concentrata il più possibile sull’oggetto prescelto. Scegliendo una
metafora che le è cara, Teresa dirà che all’inizio della via si è simili
a un giardiniere che attinga faticosamente l’acqua dal pozzo per
innaffiare il giardino.
In questa prima fase non mancano
osservazioni rivolte ai principianti, che meritano, per l’acume con cui
sono formulate, la dovuta attenzione. In particolare, viene segnalata
l’importanza del fare tutto con leggerezza e allegria, senza cercare di
soffocare i propri desideri, anche quando sono semplici e umanissimi
desideri di riuscita nel cammino intrapreso. 4 La raccomandazione di non
affidarsi in maniera acritica ai maestri spirituali (“oggi così rari e
così pochi di numero”), 5 detta proprio da lei che si affidò totalmente
ad alcuni di essi, mette in luce il fatto che il suo entusiasmo non fu
mai disgiunto da una sicura capacità di giudizio. Metteva in guardia
soprattutto contro coloro che, essendo inutilmente troppo prudenti,
ostacolavano il cammino dei discepoli, costringendoli ad attenersi alle
forme abituali della pratica, quando erano già pronti per passare alle
forme superiori. Infine, meritano di essere ricordate, per una loro
universale opportunità, tre raccomandazioni. La prima è quella di non
credere che giovi al raccoglimento avere tutto quello che può sembrare
necessario, in termini di silenzio o di ambiente adatto, sotto pretesto
che le cure temporali disturbino l’orazione. La seconda, notevolissima
per il suo anticonformismo, esprime diffidenza verso certi slanci comuni
ai principianti:
Quando non sapevo ancora come correggere
me stessa, desideravo grandemente di fare del bene agli altri:
tentazione molto comune ai principianti e che a me riuscì assai bene.
Appena si è cominciato a gustare la pace e i vantaggi dell’orazione, si desidera che tutti si facciano spirituali. 6
E la terza, dello stesso genere, riguarda la preoccupazione per i difetti altrui:
(a volte) l’angustia è così viva che
impedisce di fare orazione, con l’aggiunta anche di credere, per nostro
maggior danno, che ciò sia virtù, perfezione e grande amore di Dio… Il
più sicuro per l’anima che comincia a fare orazione è di dimenticare
tutto e tutti per non attendere che a se stessa e accontentare il
Signore. 7
Sembra dire con ciò Teresa che
l’interesse per il bene altrui non è frutto dell’entusiasmo del
principiante, ma conseguenza di un serio lavoro su di sé (senza che
questo significhi però sforzo eccessivo, altra caratteristica da
principianti). 8
Per semplicità tralascio i particolari
che riguardano alcune distinzioni graduali in questa prima fase del
raccoglimento. Teresa la divide in tre livelli, nei quali è possibile
esaminare diverse forme delle prime difficoltà, come la tentazione di
rinunciare e l’aridità interiore, quando sembra che anche gli sforzi non
abbiano effetto di alcun genere e il principiante si sente depresso e
smarrito. Questi diversi stadi sono chiamati, nel Castello interiore, col termine spagnolo di moradas,
cioè di soste o tappe; nelle edizioni italiane più recenti è invalso
l’uso di chiamarle ‘mansioni’, dal latino del vangelo di Giovanni (14,
2), espressione di senso piuttosto dubbio in italiano, che rischia il
fraintendimento. Credo perciò che sarebbe meglio tradurre con
‘stazioni’, usando il termine con cui si traduce in genere l’espressione
analoga usata nel sufismo, il misticismo musulmano, che poteva non
essere del tutto ignoto a Teresa, non foss’altro che per ragioni di
contiguità geografica e ambientale (il regno di Granata era caduto solo
23 anni prima che lei nascesse).
E passiamo ora allo stadio successivo, che è quello della ‘quiete’.
Quiete, quarta ‘stazione’, seconda acqua
Questa tappa intermedia del percorso si
caratterizza, come dice il termine che la designa, per una notevole
‘sospensione delle potenze’. In realtà, però, l’unica che è veramente in
quiete e non subisce più distrazioni è l’affettività (nel linguaggio
tradizionale la ‘volontà’), perché, senza alcuno sforzo, è tutta
concentrata sull’oggetto contemplato. Questo stato di grazia dà un senso
di pienezza e di pace, non disturbato dal fatto che pensieri e ricordi
(‘intelletto’ e ‘memoria’) continuino a occupare la mente, ma
l’attenzione li lascia trascorrere senza soffermarsi e senza
distogliersi dall’oggetto contemplato. Si tratta dunque già di uno stato
assai speciale a cui moltissimi sono in grado di arrivare, come Teresa
ci dice, anche se ben pochi riescono poi a superarlo per andare oltre.
Quello che occorre, però, è un po’ di fiducia in sé, “un’umile e santa
presunzione” di riuscita. 9 Ma l’evento non si conclude certo nella
sensazione di pienezza e di pace suddetta, che sarebbe ben poca cosa se
fosse solo episodico, avulso dalla vita quotidiana. Quello che in realtà
lo rende prezioso è la funzione di purificazione che comporta e sulla
quale molto insiste Teresa:
L’acqua che qui il Signore concede
contiene grandi tesori e favori preziosi, e fa crescere in virtù in modo
incomparabilmente maggiore che non nello stato precedente. L’anima va
spogliandosi delle sue miserie e acquistando qualche conoscenza delle
delizie del cielo. E mi pare che questo la faccia maggiormente
progredire… Arrivati a questo punto, si perde l’avidità delle cose
terrene, sino a non trovare in esse più alcuna soddisfazione… Credo
impossibile tanta felicità nelle gioie della terra. In esse vi è sempre
qualche cosa che contrasta, mentre qui non vi è che contento. 10
L’acqua cui allude qui Teresa appartiene
alla già menzionata metafora. In questa fase la fatica è molto minore
perché il giardiniere si avvale di una ruota grazie alla quale attinge
con maggiore facilità. Si tratta dunque di un esercizio che
progressivamente affina l’interiorità, senza che sia necessario fare uno
sforzo diretto in tal senso. Lo sforzo, cioè, non è teso a esercitare
questa o quella virtù, ma si concentra nell’‘orazione’, dopo di che la
virtù si fa strada nel cuore, come naturale conseguenza dell’‘orazione’
stessa. Dirà più avanti a questo proposito:
Credo che molte anime cadano in errore
pretendendo di volare prima che il Signore dia loro le ali… Esse
cominciano con grande fervore e desiderio, assolutamente decise a
progredire in virtù… ma si scoraggiano appena vedono cose di maggior
perfezione concesse da Dio a chi è più innanzi… oppure appena leggono
nei libri di orazione e contemplazione che per salire a tanta dignità si
devono fare delle cose che esse non hanno la forza di praticare. Quei
libri, ad esempio, insegnano di non curarsi se alcuno dice male di noi,
ma di goderne, anzi, più che di una lode; di non stimare l’onore, di
staccarsi dai parenti fino a sentir disgusto di stare con essi se non
sono di orazione, e altre cose del genere che, a mio parere, sono un
puro dono di Dio, perché soprannaturali o contrarie alle nostre
inclinazioni naturali… Quelle anime non si affliggano, ma confidino in
Dio e… continuino nell’orazione. 11
Teresa scopre qui per conto suo una
cosa che era ben nota alla tradizione mistica. Basti pensare a
Margherita Porete, che fu bruciata nel XIV secolo per aver sostenuto che
la pratica spirituale non può cominciare dall’esercizio delle virtù, ma
dall’amore per la meta finale, cioè l’Unità. In genere, tutta la
polemica antiquietista della chiesa si basa sulla preoccupazione, assai
poco mistica, che l’anteporre la quiete interiore all’esercizio delle
virtù possa degenerare in forme (a dire il vero non infrequenti, anche
se marginali e devianti, nella storia dei movimenti spirituali) di
antinomismo e di immoralità.
Unione ordinaria, quinta ‘stazione’, terza acqua, ‘incontro’
Questa fase è caratterizzata da
pochissimo sforzo e, se riferita alla metafora dell’acqua, è paragonata
alla facilità con cui il giardiniere lascia che un canale irrighi un
giardino o, secondo un’altra metafora assai cara a Teresa, al momento
del primo incontro in una relazione tra due amanti. Qui si può parlare
con maggior esattezza di ‘sonno delle potenze’, anche se non si tratta
ancora di un sonno completo. Le fantasie, infatti, sono presenti come
‘farfallette notturne’, quindi non disturbano quasi affatto la
concentrazione, ma quel che è più caratteristico è che si assiste alla
presenza di un doppio regime, per così dire. Da un lato infatti si
fruisce di quella sospensione e dello stato di silenzio e quiete
profonda a esso collegati, dall’altro però è possibile, se si vuole,
condurre le attività della vita ordinaria senza che quello stato sia
interrotto. È un preludio, si potrebbe dire, al momento finale del
percorso, a una situazione cioè in cui il mutamento si è verificato così
in profondità che tutta la vita, e non soltanto certi momenti, sono
illuminati e accompagnati dalla continua presenza dello Spirito, come
meglio vedremo. Questo fa sì che, a ben guardare, la successiva
‘stazione’, quella dell’estasi e dei rapimenti, non si può propriamente
considerare uno sviluppo di questa, ma forse solo l’approfondimento di
un aspetto, quello del silenzio. Un silenzio, però, che si manifesta
solo in situazioni particolari, al riparo dalle attività comuni della
vita e che perciò è ben lontano dal rappresentare la meta finale.
Unione estatica, sesta ‘stazione’, quarta acqua, fidanzamento spirituale
Prendendo a prestito un termine
sanscrito ben noto, questo potrebbe chiamarsi il momento in cui Teresa
raggiunge il più profondo samadhi. Ascoltiamo come lei stessa ne parla:
Qui non vi è che un sentimento: quello
della gioia, senza sapere di che. Si sente di godere un bene che ha in
sé ogni bene, ma senza comprenderlo. Tutti i sensi sono assorbiti in
questo gaudio, e nessuno può occuparsi di altre cose, esterne o interne…
Aggiungo che se è unione di tutte le potenze, l’anima non può occuparsi
di nulla, neppure volendolo. Anzi, se lo potesse, non sarebbe unione…12
Si tratta dunque di uno stato di totale
assorbimento, o di estasi, che dura non più di una mezz’ora e non
sempre con la stessa intensità, perché le ‘potenze’ dell’anima tendono a
riprendere il sopravvento, anche se vengono sempre di nuovo tacitate
dalla potenza che sola resta sempre nello stato di quiete, cioè la
volontà, 13 come abbiamo già visto. Le metafore teresiane che descrivono
questa sesta ‘stazione’ sono quelle del ‘fidanzamento’ e della ‘quarta
acqua’, cioè la pioggia, che arriva per decisione del cielo, senza che
il giardiniere faccia il minimo sforzo per procurarsela, simile anche a
un’onda, che trasporta irresistibilmente una barca. Poiché a questa
stazione estatica sono legati i fenomeni più mirabolanti, capita che
molti conoscano S. Teresa solo per questo, con grave pregiudizio del
vero valore del suo insegnamento. Il Vannini, che pure non ama
particolarmente il tipo teresiano di mistica (forse solo, come crediamo,
per uno strano fraintendimento), 14 fa notare giustamente che l’ordine
carmelitano, e in generale la chiesa cattolica, hanno contribuito in
maniera determinante a sopravvalutare i fenomeni straordinari e
miracolistici, quasi a indicare che in essi soltanto consista la
tipicità di Teresa. In tal modo si ripete la tradizionale operazione
dell’istituzione ecclesiastica di porre la mistica, in genere, come
qualcosa che riguarda solo coloro che sono privilegiati da una grazia
specialissima, cioè pochissimi eletti e non gli altri, dichiarando così,
in maniera implicita, la sostanziale inutilità di ogni pratica del
genere, perché non necessaria alla salvezza. E questo non è mitigato, se
non all’apparenza, dal fatto di aver dichiarato Teresa ‘dottore’ della
chiesa. Sembra quasi che l’istituzione si rifiuti di valutare
l’importanza che la pratica dell’‘orazione’, nella quale sembra
consistere il vero ‘dottorato’ teresiano, avrebbe oggi per la stessa
sopravvivenza spirituale della chiesa nel mondo moderno, al di là dei
successi meramente mediatici.
È proprio Teresa, del resto, a farci
notare che i fenomeni in sé non sono importanti, che anzi possono trarre
in inganno (venire dal diavolo e non da Dio, come dirà anche Vincenzo
Ferreri, non meno spagnolo e non meno santo di Teresa), per essere
legati a insani fenomeni psichici, come le ‘possessioni’. Ma a parte le
esplicite affermazioni in questo senso, molto di più colpisce il fatto
che la ‘stazione’ dell’unione estatica non rappresenta il grado massimo
dell’itinerario, ma è soltanto la penultima, la sesta. 15 Poiché non si
parla chiaramente di un’ulteriore tappa nella Vita, che Teresa
finì di scrivere 17 anni prima della morte, è possibile che lei stessa
non sia divenuta pienamente consapevole di questa ulteriore ‘stazione’
se non dopo aver concluso l’autobiografia, ma è certo che a essa
dedicherà, nel Castello interiore, tutto lo spazio che le
compete come settima e suprema, trovandosi al centro di quel castello,
che è l’anima, dove risiede la presenza stessa di Dio.
Unione trasformante, settima ‘stazione’, matrimonio spirituale
Che dopo l’estasi, dove già si è
sperimentata la pienezza dell’unione mistica, venga uno stato ulteriore e
più alto, nel quale è possibile svolgere, nel normale possesso di tutte
le facoltà, le azioni della vita quotidiana, è qualcosa che a prima
vista può sorprendere, ma che trova in realtà un riscontro degno di nota
in altre importanti tradizioni. Si possono fare almeno due esempi che
ci permettono di capire meglio l’esperienza descritta da Teresa. Il
pensiero va in primo luogo ai mistici musulmani, i sufi, che distinguono
due ‘stazioni’ alla fine del percorso. Quella più nota si chiama fana,
estinzione, che allude al dissolversi della personalità individuale
nella totalità dell’essere e nell’unione con Dio. Addirittura certe
scuole, nel timore che fana possa intendersi come una rinuncia a sé che conservi un residuo di egocentrismo ascetico, preferiscono parlare di fana an-al- fana,
cioè di estinzione dell’estinzione. Ma proprio qui, quando sembra che
non ci sia spazio per nient’altro, ecco comparire una nuova ‘stazione’,
chiamata baqa, cioè esistenza, un ritorno all’esistenza nel
mondo e per il mondo. Non troppo dissimile sembra il senso delle due
ultime illustrazioni Zen della ricerca del bue. Anche qui, al
dissolversi dei due, bue e pastore, nell’unione, segue il ritorno tra la
gente, nella piazza del mercato, con le mani aperte. Le influenze,
probabilmente inconsapevoli, che Teresa avrebbe potuto ricevere
dall’ambiente religioso spagnolo e dalla sua contiguità con la mistica
musulmana, non sono certo sufficienti a spiegare queste analogie, che ci
si sente piuttosto inclini ad ascrivere a un più universale fattore di
morfologia dell’esperienza mistica.
Vediamo ora alcuni particolari più
significativi relativi a questa settima e ultima stazione. Qui dunque
non ci sono più né estasi né rapimenti, ma anzi il preciso
riconoscimento che tutti i gradi di ‘orazione’ precedenti avevano come
unico scopo quello di introdurre l’anima a quest’ultima ‘stazione’. 16
Ciò che caratterizza il matrimonio mistico è una piena intuizione
dell’essenza di Dio. Teresa usa la parola ‘visione’ precisando molto
bene, come fa sempre, che essa non ha nulla di immaginativo né di
sensoriale (dice sempre che “non vedeva nulla”), né di intellettuale nel
senso logico-discorsivo del termine. Nel linguaggio psicologico non
resta dunque che il termine ‘intuizione’ per definire una cosa del
genere. Una volta avuta quest’esperienza, sembra a Teresa che la
presenza di Dio non l’abbandoni più, e che risieda
nella parte più intima di se stessa, come in un abisso molto profondo che per difetto di scienza non sa definire… 17
Anche se l’immediatezza di questa prima
intuizione è impossibile da mantenersi con continuità nel tempo (pur
sembrando possibile un suo rinnovarsi),
tuttavia l’anima non lascia mai di
avvertire di essere in quella compagnia… In essa infatti trova un grande
aiuto per avanzarsi in perfezione… infatti quella persona (Teresa) si
trovò migliorata in ogni cosa, persuasa che l’essenziale della sua anima
non si muovesse più da quella stazione, per pene e affari che avesse.
18
Per rendere più accessibile il
discorso, si serve del paragone secondo cui l’unione ordinaria (cioè la
quinta stazione) può essere simile alla fiamma unita di due candele
avvicinate, che in qualunque momento possono essere allontanate, mentre
l’unione trasformante è come l’acqua di un fiume che è sfociato nel
mare, o la pioggia in un fiume, o la luce che entra da due diverse
finestre. 19 In nessuna di queste situazioni è possibile rintracciare i
componenti originari, eppure, per evitare che il lettore si senta
indotto a pensare a qualcosa di inumano e di inimmaginabile, Teresa
insiste che la personalità individuale continua a esistere e, “quando le
avviene di trovarsi in gravi tribolazioni” (dovute all’agitazione delle
potenze, dei sensi e delle passioni) percepisce l’esistenza dell’altra
parte (quella che ormai vive nella raggiunta unità) come di una sorella.
Così la Marta evangelica percepiva la sorella Maria, lamentandosi che
quella avesse la pace della contemplazione mentre lei era immersa nelle
faccende domestiche. 20 Dobbiamo dunque immaginare che l’ingresso nella
settima stazione costituisca come un concreto e ormai indistruttibile
nucleo di pace all’interno di sé. Un nucleo che si esprime nella
sensazione-percezione della Presenza come “vita” e come “sostegno” (“O
Vita della mia vita! O Sostegno che mi sostieni”). 21 Prezioso per la
comprensione è anche un ulteriore accenno all’effetto che i dolori della
vita hanno su chi è arrivato a questo livello:
No, sorelle, neppure queste anime van
senza croce. Però non si angustiano, né perdono la pace. Tutto passa
rapidamente come un’onda, o come una tempesta a cui segua la bonaccia.
La presenza del Signore che portano con sé fa dimenticare loro ogni
cosa. 22
Quella che appare qui completamente
cancellata è tutta quella sequela di recriminazioni, rimpianti,
delusioni che costituisce l’apparato aggiunto dalla mente umana alle
sofferenze della vita, queste sole, a differenza di quelle, inevitabili.
Motivo anche questo centrale della letteratura mistica, in Oriente come
in Occidente.
Vorrei concludere col ricordare, fra le
tante, le considerazioni con le quali Teresa descrive due
caratteristiche centrali dello stato di unione, anch’esse notevoli per
la loro universalità. La prima riguarda gli effetti che comporta un
reale abbandono alla volontà della provvidenza, dopo che si è progrediti
nel rinunciare alla propria. Questi effetti consistono,
sorprendentemente, nella gioia che è compresente al dispiacere della
rinuncia. Sembra che nel momento in cui l’Io delibera di lasciare la
presa, ciò si risolva in un senso di allegra liberazione, un’esperienza
quasi incomprensibile per chi non sia a quel livello, ma ben
riconoscibile nelle maggiori tradizioni mistiche, dove pure si dice che
rinuncia all’attaccamento e gioia procedono di pari passo. Teresa ne
parla, per fare un esempio fra tanti, a proposito di un momento in cui
altri impegni la costringono a lasciare la casa di una ricca dama, dalla
quale aveva ricevuto amicizia e lunga ospitalità. Nel momento in cui si
accinge a rientrare nella mischia del mondo esterno, che non fu mai
avaro per lei di fatiche e di conflitti, invece di piegarsi con amarezza
e sopportazione, viene inondata da una profonda gioia, per cui
dichiara:
Più grandi erano le soddisfazioni che
per amore di Dio sacrificavo, maggiore era la gioia di cui mi sentivo
inondare, né capivo come ciò avvenisse, trattandosi di due opposti
sentimenti: gioia, consolazione e allegrezza che nascevano dal
sacrificio di lasciare quella casa dove mi sentivo quieta e contenta, e
dove potevo stare in orazione per molte ore. 23
La seconda considerazione, anch’essa
diversa rispetto a quello che ci si aspetterebbe seguendo lo stereotipo
di una grande personalità mistica, riguarda la necessità di una perfetta
integrazione della vita attiva con quella contemplativa (ma chi ha
seguito con attenzione i particolari che caratterizzano la settima
‘stazione’ non ne sarà troppo meravigliato). Su questo Teresa è
particolarmente netta e addirittura cruda, quando ne parla alle sue
discepole e consorelle:
Ripeto, è necessario che cerchiate di
non far consistere il vostro fondamento soltanto nel recitare e
contemplare, perché se poi non operate nel mondo rimarrete sempre delle
nane. E piaccia a Dio che vi limitiate soltanto a non crescere, perché
su questa via, come sapete anche voi, chi non va innanzi torna indietro.
Tengo per impossibile, infatti, che l’amore, quando vi sia, si contenti
di rimaner sempre in uno stato… Se interiormente queste anime sono nel
riposo, è perché esteriormente non lo sono che pochissimo, e neppure lo
desiderano. 24
Ma qui sorge il problema (che si era
già posto anche Eckhart) di come conciliare questa ferma convinzione con
il famoso episodio evangelico di Marta e Maria in cui le parole di Gesù
sono molto chiaramente a favore della contemplativa Maria, che “ha
scelto la parte migliore”(Lc. 10, 38-42). Teresa si sente costretta,
proprio come Eckhart (sia pure usando un diverso espediente), a proporre
un’interpretazione forzata del passo, tanto era incrollabile la sua
opinione. Secondo lei (fondendo insieme, secondo una tradizione popolare
corrente, due diversi episodi evangelici), Maria “aveva già fatto
l’ufficio di Marta”, cioè la parte attiva, quando aveva versato
l’unguento profumato sui piedi di Gesù, che aveva poi asciugato coi
capelli prendendosi anche le critiche dei presenti. Il che la fa
concludere, con un candore suo tipico: “da ciò si vede che non stava
sempre ai piedi del Signore tra le delizie della contemplazione”. 25
Mi sembra bello concludere con un passo
dell’autobiografia, in cui Teresa descrive con commovente efficacia la
propria vita di unione e di pace, sottolineando in particolare l’ormai
raggiunto distacco:
Essendo così lontana dal mondo e in
compagnia così piccola e santa, vedo ogni cosa come da un’altura, per
cui poco mi curo di ciò che si dica o si sappia di me. Più che delle
chiacchiere a mio riguardo mi interesso di ogni più piccolo progresso
che un’anima possa fare… La vita mi è divenuta come una specie di sogno,
e sogno mi sembra tutto quello che io vedo. Non sento più né grandi
gioie, né grandi afflizioni. E se talvolta ne provo ancora, è solo per
poco tempo, tanto da meravigliarmene io stessa, rimanendomene poi con
l’impressione come di una cosa sognata. 26
Note
1. S. Teresa di Gesù, Opere, Roma, Postulazione generale O. C. D., 1997, pp. 956s.
2. Ib., pp. 50, 53.
3. Ib., p. 102.
4. Ib., p. 128.
5. Ib., p. 129.
6. Ib., pp. 84, 131.
7. Ib., p. 133.
8. Ib., p. 121.
9. Ib., p. 125.
10. Ib., p. 142.
11. Ib., pp. 311s.
12. Ib., p. 170.
13. Ib., p. 175.
14. M. Vannini, Il volto del Dio nascosto. L'esperienza mistica dall'Iliade a Simone Weil,
Milano, A. Mondadori, 1999, pp. 261ss. In questo bel lavoro, l'autore
individua tre componenti essenziali della mistica teresiana che, a suo
parere, sono: la sofferenza, la meditazione cristologica e l'elemento
psicologico. In realtà, anche se qui non c'è spazio per dimostrarlo in
dettaglio, a noi sembra che al primo posto Teresa ponga sempre la gioia
anziché la sofferenza; che sulla meditazione cristologica abbia un
atteggiamento complesso, ben consapevole di certe difficoltà, che
soltanto alla fine si sciolgono, dopo quella che può chiamarsi la sua
grande intuizione trinitaria e, infine, che questa intuizione ha, per
sua esplicita ammissione, un carattere indescrivibile, che si pone
chiaramente al di là del mondo sia sensoriale sia psichico.
15. Anche su questo punto il Vannini
sostiene, invece, essere la componente estatico-visionaria, da lei
sminuita, secondo lui, solo a parole, l'elemento di fatto determinante
(ib., p. 262).
16. Opere, cit., p. 938.
17. Ib., p. 939.
18. Ib., p. 940.
19. Ib., p. 944.
20. Ib., p. 940.
21. Ib., p. 944.
22. Ib., p. 955.
23. Vita, p. 358. Basterebbe questa frase per smentire chi accusa Teresa di ‘dolorismo’.
24. Castello, p. 960.
25. Ib., p. 962.
26. Ib., pp. 431s.
da | O.carm
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