Il dramma delle centinaia di morti nei naufragi del Mediterraneo mi interroga e ne parlo una mattina ai ragazzi del liceo. Ma sono proprio loro, con quella istintività che li connota e con quei giudizi secchi che pescano dal mondo che li circonda, che mi ribattono: «Se la sono cercata!». Uno schiaffo sonoro! Che non mi aspettavo.Questa volta però me ne infischio dell’evangelico “porgere l’altra guancia” e reagisco. Lo faccio cercando di argomentare, perché ho un timore: che il cuore si rimpicciolisca e che si viva di reazioni senza usare l’intelligenza. C’è una grande premessa da fare. Ci sono in ballo problematiche enormi che politica e istituzioni, a tutti i livelli, devono provare a risolvere: problematiche dentro le quali non mi voglio infilare sia per la loro complessità sia per la mia incapacità nel sapere ben giudicare. Senza problemi, però, affermo e sostengo che bisognerà sicuramente usare la mano pesante con i trafficanti di morte: scafisti e chiunque altro speculi sulla vicenda. Tuttavia non possiamo dimenticare le vittime. Non possiamo ucciderli due volte! Perché si spendono soldi e si rischia la vita per arrivare sulle nostre coste? Spesso è gente che fugge da paesi in cui la vita delle persone viene sistematicamente violata. Mi colpiva quanto riportato qualche tempo fa dal dott. Claudio Puoti in servizio volontario sulla nave San Giusto della Marina Militare. Questa domanda l’aveva posta molte volte ai migranti salvati in extremis in mare e la risposta più volte ascoltata era stata questa: «Meglio morire in mare che continuare la vita che facevamo in patria». Oppure l’intervista sulla rivista dei Gesuiti del Centro Astalli fatta ad un rifugiato somalo, Awas Ahmed: «Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?».
Altrettanto potentemente mi colpiva quanto riportato dalla cronaca
dell’ultimo naufragio. Due cadaveri ripescati in mare portavano tatuata
sulla pelle questa frase: «Possa Dio aiutarci»,
ed altri portavano scritto sulla mano il luogo da cui provenivano, il
nome del loro paese di origine. Una preghiera e il nome della propria
casa: con questi sentimenti si affronta il mare.
Cosa posso dire? Come posso convincere i miei amici studenti? Ci sono due livelli che posso toccare.
Uno più “laico”. Lo dico citando Giorgio Gaber che in uno dei suoi concerti ha raccontato questo aneddoto. «Ho fatto un sogno. Ero un naufrago in mezzo al mare. Ad un certo punto tra le onde vedo spuntare qualcosa: una testa, una persona. Speriamo che non mi veda – penso – perché non c’è posto per due sulla zattera! E invece mi vede, agita una mano e incomincia a nuotare verso di me. Cosa fare? Non posso farlo salire. Allora prendo il remo e quando lui è vicino, lo alzo e … Purtroppo mi sveglio. Come è andata a finire? Devo riaddormentarmi per sapere se mi sono salvato! Allora ci provo a dormire e a sognare. Ed effettivamente mi accade di dormire e ricomincio pure a sognare: il mare, ovunque, attorno. Ma ora sono io nel mare! E lì, per fortuna, c’è una zattera. Allora mi affanno a gridare, a fare segnali, e incomincio a nuotare verso la zattera. Gli sono ormai giunto vicino quando il naufrago alza il remo e … “baam”: che botta! Per fortuna era un sogno e mi sono svegliato!». Detto in altro modo: se ci fossi io al posto loro?
Uno più cristiano e perciò più umano. Diceva Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est che «il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è un “cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente». Il problema è come percepisco il mio cuore, fatto da Dio e abitato da Lui. Il problema è come percepisci il tuo cuore, fatto da Dio e abitato da Lui. Il problema è saper vedere in chi soffre il volto sofferente di Gesù e avvicinarmi a lui mostrando – attraverso me – il volto consolante di Gesù: la liturgia del prossimo, come la definiva il beato Vladimir Ghika. Se si tende a questa profondità allora accade con semplicità quello che suor Emmanuelle racconta nel suo libro Ricchezza della povertà: «Qual è la chiave che apre un rapporto vivo, da uomo a uomo? Il cuore, il centro più intimo della persona, laddove si uniscono le facoltà dell’intelletto, della sensibilità e della volontà. E’ il cuore che riscalda e brucia. Dà calore ai nostri contatti con l’altro. L’altro non è compreso attraverso un ragionamento freddo, né un’emotività pura, né una determinazione rigorosa, ma mediante uno slancio spontaneo dell’intero essere». Detto in altro modo: la risposta ad ogni questione è in quella profondità del cuore abitata da Dio. Lui è salito sulla mia piccola barca che attraversa la tempesta della vita: e l’ha pacificata.
Cosa posso dire? Come posso convincere i miei amici studenti? Ci sono due livelli che posso toccare.
Uno più “laico”. Lo dico citando Giorgio Gaber che in uno dei suoi concerti ha raccontato questo aneddoto. «Ho fatto un sogno. Ero un naufrago in mezzo al mare. Ad un certo punto tra le onde vedo spuntare qualcosa: una testa, una persona. Speriamo che non mi veda – penso – perché non c’è posto per due sulla zattera! E invece mi vede, agita una mano e incomincia a nuotare verso di me. Cosa fare? Non posso farlo salire. Allora prendo il remo e quando lui è vicino, lo alzo e … Purtroppo mi sveglio. Come è andata a finire? Devo riaddormentarmi per sapere se mi sono salvato! Allora ci provo a dormire e a sognare. Ed effettivamente mi accade di dormire e ricomincio pure a sognare: il mare, ovunque, attorno. Ma ora sono io nel mare! E lì, per fortuna, c’è una zattera. Allora mi affanno a gridare, a fare segnali, e incomincio a nuotare verso la zattera. Gli sono ormai giunto vicino quando il naufrago alza il remo e … “baam”: che botta! Per fortuna era un sogno e mi sono svegliato!». Detto in altro modo: se ci fossi io al posto loro?
Uno più cristiano e perciò più umano. Diceva Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est che «il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è un “cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente». Il problema è come percepisco il mio cuore, fatto da Dio e abitato da Lui. Il problema è come percepisci il tuo cuore, fatto da Dio e abitato da Lui. Il problema è saper vedere in chi soffre il volto sofferente di Gesù e avvicinarmi a lui mostrando – attraverso me – il volto consolante di Gesù: la liturgia del prossimo, come la definiva il beato Vladimir Ghika. Se si tende a questa profondità allora accade con semplicità quello che suor Emmanuelle racconta nel suo libro Ricchezza della povertà: «Qual è la chiave che apre un rapporto vivo, da uomo a uomo? Il cuore, il centro più intimo della persona, laddove si uniscono le facoltà dell’intelletto, della sensibilità e della volontà. E’ il cuore che riscalda e brucia. Dà calore ai nostri contatti con l’altro. L’altro non è compreso attraverso un ragionamento freddo, né un’emotività pura, né una determinazione rigorosa, ma mediante uno slancio spontaneo dell’intero essere». Detto in altro modo: la risposta ad ogni questione è in quella profondità del cuore abitata da Dio. Lui è salito sulla mia piccola barca che attraversa la tempesta della vita: e l’ha pacificata.
da | www.mec-carmel.org
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