domenica 3 novembre 2013


L’archetipo eliano
Già i padri della Chiesa (S. Atanasio, S. Gerolamo, S. Cassiano) —parlando della vita monastica— avevano indicato ai cristiani, come iniziatore di un tale stile di vita, il profeta Elia che si era ritirato in solitudine sulla montagna del Carmelo, dove poi si erano formate, al suo seguito, delle confraternite di “figli dei profeti” che vivevano in comunità (cfr. 2 Re 2,3ss). 
Elia era perciò già universalmente considerato (da greci, latini, siriaci, bizantini) come fondatore del monachesimo. E tale era rimasto anche nella riflessione degli autori medievali. Nessuna meraviglia dunque che quel gruppo di eremiti —giunto sulla Santa Montagna sul finire del secolo XII, e radunato proprio “presso la fonte di Elia”— si considerasse erede di tutta la tradizione “carmelitana” e che col tempo elaborasse questa particolare primogenitura.

Nelle Costituzioni di Londra (che l’Ordine si diede nel capitolo del 1281) venne premessa una particolare Rubrica prima che aveva lo scopo di insegnare ai giovani carmelitani come rispondere a chi li interrogava sulla loro identità: «Per rendere testimonianza alla verità, affermiamo che, dal tempo dei profeti Elia ed Eliseo i quali vissero devotamente sul monte Carmelo, santi Padri del Vecchio e del Nuovo Testamento, come veri amanti della solitudine di quel monte favorevole alla contemplazione delle cose celesti, là, presso la fonte di Elia, vissero lodevolmente in santa penitenza, continuata incessantemente attraverso sante generazioni successive». 
Verso la fine del secolo XIII l’idea di una successione ereditaria ininterrotta —da Elia agli eremiti medievali— è già formalizzata ed esposta negli scritti degli autori dell’Ordine e la conseguente “spiritualità” tocca vertici di particolare bellezza. 
Si precisa così la comprensione del proprio originale carisma che trova la più esatta e affascinante esposizione in un testo del secolo XIV, intitolato L’istituzione dei primi monaci, nel quale si legge: 
«Duplice è il fine proposto ai seguaci di Elia. Il primo consiste nell’offrire al Signore un cuore puro, scevro da ogni macchia di peccato attuale; ed è un fine raggiungibile, con l’aiuto di Dio, attraverso il nostro sforzo personale, esplicato in una prassi virtuosa, informata dalla carità. L’altro fine invece supera le nostre forze e consiste nel poter noi –per divina condiscendenza– sperimentare in qualche misura la forza della divina presenza e gustare nell’intimo la soavità dell’eterna beatitudine non solamente dopo morte, ma fin da questa vita» (c. II). 
Il motto di Elia “Vive il Signore alla cui presenza io sto” diventa così l’ideale del carmelitano orante; come diventano emblematici certi episodi della sua vita: soprattutto la sua lunga ed estenuante fuga nel deserto –dove il profeta viene nutrito da un pane portato dagli angeli– e l’incontro con Dio sull’Oreb dove il Signore si manifesta “nel soffio di un vento leggero” (simbolo dell’intimità). 
Ma Elia viene anche considerato –sempre in base alle antiche leggende– come “primo devoto della Vergine” e anticipato imitatore della purezza di Lei (simboleggiata dal mantello bianco). 
Nel 1725 –quando si tratterà di adornare la basilica di S. Pietro con le statue dei fondatori dei vari Ordini religiosi– Benedetto XIII (vincendo le resistenze di molti) concederà ai Carmelitani di erigere una statua al Santo Profeta, con la scritta in latino: «L’intero Ordine carmelitano eresse questo simulacro al proprio Fondatore S. Elia profeta». 
Padre Antonio Maria Sicari ocd

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