giovedì 14 maggio 2015

Giovanni della Croce - Il dono e lo scambio

 giovanni della croce.JPG
Giacomo Gubert, ocd.

Tutti i doni divini che Giovanni della Croce enumera nelle Romanze sembrano essere orientati allo scambio finale tra Dio e l’uomo; il giorno del fidanzamento la sposa non si presenta a mani vuote al suo Sposo ma gliele porge cariche di gioielli. I doni divini sono dunque per lo scambio tra Dio e l’uomo. La sposa delle Romanze rievoca per opposizione la donna di Samaria del Vangelo di Giovanni, l’unica a cui fu chiesto di donare qualche cosa a Dio (quasi rispondendo senza saperlo, ma concretamente al dono dell’Incarnazione). Ella tuttavia, ricordiamolo, non aveva saputo dare da bere a Gesù ma, abbandonata la sua brocca a terra, «convertitasi», era tornata al suo villaggio per annunciare la presenza del Messia. La sposa delle Romanze invece si lascia prendere dal suo Sposo che scende a cercarla: ella non lascia cadere a terra le sue fatiche ma s’abbandona, lei stessa, nelle braccia del suo Sposo per donargli una specie di «acqua viva», le sue lacrime, che «fin allora le erano così estranee».
Giovanni della Croce scrive due volte di questo scambio: nella quarta Romanza dove dice: «Che Dio si farà uomo / e che l’uomo sarà Dio»[i]; e nella nona, come già detto: «E la Madre quello scambio / con stupore contemplava: / l’uomo in cui la gioia splende, / Dio che lacrime assapora: / sono cose che all’uno e all’altro / erano estranee fino allora»[ii]. Nel primo caso il Figlio, che si è fatto in tutto simile all’uomo, domanda di essere pienamente accolto nella sua casa (per abitare, parlare, ascoltare, mangiare e bere insieme); nel secondo caso assistiamo allo scambio di doni di fidanzamento tra lo Sposo e la sposa: il Figlio riceve le lacrime dell’uomo che sono simbolo di tutta la bassezza della natura umana, che proviene dalla sua composizione di spirito e carne, e al contempo di tutte le sue conseguenze, a cui Giovanni della Croce accenna scrivendo di un «duro servizio sotto il giogo della legge che Mosé aveva donato»[iii]. Da parte sua la sposa riceve, della gioia promessa, l’allegria che la Madre con stupore nel giorno del Natale scorge nell’uomo, un’allegria che «gli era così estranea» e di cui sentiamo risuonare tutto il palazzo[iv] della sposa pur non essendo ella ancora nella «camera nuziale».
L’amore è la causa di questo scambio, amore la cui azione obbedisce ad una legge «onnipotente», secondo quanto udiamo dire dal Padre al Figlio nella settima Romanza.: «In tutti gli amori perfetti / questa legge è necessaria, / che si faccia somigliante / l’amante a colei che ama»[v]. La ragione di questa legge dell’amore è la felicità, alla quale l’amore tende; prosegue infatti così la spiegazione del Padre: «Perché quanto più la somiglianza è grande / tanto più essa contiene gioia»".
Come si vedrà meglio nel Cantico spirituale (CS) e nella Viva fiamma d’amore (VF), il linguaggio che esprime questa potenza dell’amore, capace di divinizzare la natura umana, supera di tanto il linguaggio ontologico, senza del resto negarlo, quanto l’unione di amore, di cui Giovanni della Croce parla, presuppone l’unione sostanziale. Nella Salita al monte Carmelo (MC), il poeta lo afferma esplicitamente: «Per bene intendere, dunque, quale sia l’unione di cui parliamo, bisogna sapere che Dio è presente e dimora sostanzialmente in qualsiasi anima, anche in quella del più grande peccatore di questo mondo. Tra Dio e tutte le cose create esiste sempre questa maniera di unione: con questa Egli conserva loro l’essere che hanno, di modo che per poco essa venisse a mancare, subito le cose cesserebbero di esistere tornando al nulla. Quando perciò parliamo di unione dell’anima con Dio, non intendiamo parlare dell’unione sostanziale di Lui in tutte le creature, ma della trasformazione e unione dell’anima con Dio, unione che non sempre esiste, ma solo quando l’anima viene ad avere somiglianza d’amore; e perciò questa si chiamerà unione di somiglianza, mentre le prima si chiama unione essenziale o sostanziale. La prima è naturale; la seconda, soprannaturale, e avviene quando la volontà divina e l’umana sono pienamente conformi, non essendovi in una alcune cosa che ripugni all’altra. Perciò se l’anima rimuoverà da sé totalmente ciò che è contrario alla volontà divina, resterà trasformata in Dio per amore»[vi]. I doni, a partire dall’essere stesso, sono per lo scambio. Max Huot de Longchamp commenta: «Gli esseri esistono per essere la moneta di un incontro che li trasformi in scambio vitale, ecco che cosa esprime l’immagine della incandescenza (che ritroveremo nella Viva fiamma d’amore). Detto ciò, Giovanni della Croce non cesserà di scrivere di questo scambio e della reciprocità di questo incontro: “L’amore produce una tale somiglianza nella trasformazione di coloro che si amano che si può dire che ognuno è l’altro e che entrambi sono uno. La ragione è che nell’unione e trasformazione d’amore, l’uno dona il possesso di sé al- l’altro; e così ognuno vive nell’altro, e l’uno è l’altro ed entrambi sono uno per trasformazione d’amore” (CS 11,7)»[vii].
Riconosciamo all’opera una doppia dinamica del dono: una soggettiva, l’altra oggettiva. La prima, il fatto cioè che il donatore desideri tanto comunicarsi personal- mente al destinatario da preferire essere il dono che fa, per unirsi a lui, piuttosto che restare il donatore, separato dal destinatario M, esige il compimento nello scambio dei doni, che significa esattamente l’inserimento del destinatario nell’identica logica del donatore. Alla sposa, che deve «meritare grazie al Figlio» di «tenere compagnia» a Dio Trinità[viii], Giovanni della Croce mostra la via che conduce all’unione ultima de- scrivendo i dialoghi intratrinitari che sono all’origine di ogni storia cosmica e umana.
La seconda dinamica concerne gli oggetti del dono: non si può donare che ciò che si ha e non si può desiderare di donare che molto di più di ciò che si è ricevuto.
I  doni dello scambio finale (le lacrime e l’allegria) rivelano allora primariamente ciò che i due donatori hanno di meglio da offrire ed al contempo indicano il punto di vista del poeta nelle Romanze. Giovanni della Croce scrive a partire dalla vetta del monte Carmelo, là dove sapremo pienamente che solo Dio può donare l’allegria agli uomini. Ma, essendo egli là, scrive per invitare ogni uomo a raggiungerlo su questa santa montagna, come ricorda Edith Stein: «Ciò che voleva, in fondo, era, come dice l’Areopagita stesso, “condurre per la mano”, cioè completare attraverso i suoi scritti la sua opera di direttore d’anime»[ix]. Per questo motivo nel giorno del suo fi- danzamento la sposa dà in dote «le sue gioie» (l’acqua viva delle lacrime) che sono obiettivamente preziose per l’obbedienza del Figlio, benché siano di scarso valore ri- spetto alla ricchezza che è Dio Padre, origine senza origine. Di essa scrive il poeta nella settima Romanza: «La mia volontà è la tua / - gli rispondeva il Figlio - / [...] / Io andrò a cercare la mia sposa / e prenderò su di me / le sue fatiche e le sue pene / per le quali ella tanto soffriva»[x]. Da un lato dunque è lo Sposo che conferisce preventivamente valore ai doni della sposa, dall’altro è nell’atto d’offerta di questi doni che la sposa impara a donarsi allo Sposo. Così ella merita, grazie al Figlio, la compagnia delle divine Tre Persone.
Si noterà facilmente che il registro dominante delle Romanze è psicologico: esso si colloca tra la simbolica della croce, alla quale è molto vicino, e quella della notte, che non è completamente assente da queste poesie. In ciò sta forse il carattere parti- colare della poesia delle Romanze. A questo proposito, Edith Stein scrive nella Scienza della Croce: «Noi siamo adesso nella condizione di riassumere brevemente la differenza che separa il carattere simbolico della Croce e quello della notte. La croce è il segno che ci rappresenta tutto ciò che è in relazione alla Croce di Cristo, che si tratti di un rapporto di causa o di un rapporto storico. La notte invece è l’indispensabile espressione cosmica del mondo mistico quale lo considera Giovanni della Croce. La predominanza del simbolo della notte è un indice del fatto che, negli scritti del santo Dottore della Chiesa, non era il teologo ma il poeta che prendeva la parola, anche quando il teologo sorvegliava coscienziosamente i pensieri come anche la loro espressione»[xi].
Osserviamo infine che questo scambio riassume in sé i due doni fondamentali del vangelo di Giovanni: lo Sposo è il Figlio donato dal Padre e, grazie all’unione amorosa con il suo Sposo, la sposa riceve «il potere di diventare figlia di Dio». Se ci è permesso un gioco di parole tratto dalla lingua francese, la sposa unita al Figlio diventa «la bella figlia» del Padre.



[i]     Cfr. R4:l42s. Citiamo le romanze indicando il loro numero, preceduto dalla lettera R, a cui segue il numero del verso, secondo la divisione adottata, tra gli altri, da A. CAPOCACCIA Quadri, L’opera poetica di San Giovanni della Croce, Ancora, Milano 1977.
[ii]    Cfr. R9:309-314.
[iii]   Cfr. R7:224-210.
[iv]    Cfr. R9:301s.: «Gli uomini alzavano canti / e gli angeli melodia».
[v]    Cfr. R7:239-342.
[vi]    Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, L. II, 5,3.
[vii]   M. HUOT de Longchamp, Lectures de Jean de la Croix, Beauchesne, Paris 1981, p. 109.
[viii]  Cfr. R3:79-80.
[ix]    E. STEIN, La scienza della Croce, Edizioni OCD, Roma 2002, p. 35.
[x]     Cfr. R7:249-250.263-266.
[xi]    E. STEIN, La scienza della Croce, cit., p. 41.


da | O.Carm

Nessun commento:

Posta un commento