venerdì 22 maggio 2015

Il compito della santità

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Antonio Maria Sicari, ocd.
Il cammino della santità è stato reso possibile da un dono gratuito e indeducibile da ogni nostra attesa: l’incontro con Cristo e la compagnia salvifica che Egli ha fatto alla nostra vita.
Esso è dunque un cammino che si può sviluppare solo come affezione personale a Cristo e senso costante della sua Presenza.
Soltanto la certezza di questa Presenza, il desiderio appassionato del suo Volto, la sequela fiduciosa di Lui nonostante la propria debolezza e l’esperienza di molteplici infedeltà possono realizzare la santità del discepolo.
In tale sequela, lo sforzo morale e ascetico non è teso «ad afferrare Cristo», se non come conseguenza della gioia «d’esser già stati afferrati da Lui» (Fil 3, 12). L’autocoscienza del santo, anche psicologicamente, è determinata dalla pace e dall’abbandono generati dalla propria appartenenza al Signore Gesù, secondo il detto di Paolo: «Vivo: non io, è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).
Condizione essenziale perché maturi una vera santità è, dunque, che il rapporto del fedele con Cristo sia e rimanga un vero e reale incontro da persona a persona.
Che Cristo non divenga mai una Parola disincarnata, né un’idea, né un valore, né una causa a cui votarsi, ma che resti, in ogni istante e in ogni luogo della vita, il Figlio di Dio «fatto uomo per noi e per la nostra salvezza» è una questione capitale e decisiva.
A tale scopo è necessario abituarsi a considerare il «corpo risorto di Cristo» come corpo massimamente reale, e a considerare lo Spirito Santo come lo Spirito dell’incarnazione che sempre «prende da Cristo» vero Dio e vero uomo tutto ciò che annuncia (cfr. Gv 16, 14).
Il senso della contemporaneità corporea di Cristo è uno degli elementi che si ritrova costantemente nell’esperienza dei santi canonizzati di ogni tempo.
La percezione realistica del corpo risorto di Cristo e dell’azione del suo Santo Spirito viene garantita, nel tempo e nello spazio, dalla concretezza della Santa Chiesa, alla quale siamo ugualmente chiamati ad appartenere.
Essa è «la vigna scelta per mezzo della quale i tralci vivono e crescono con la stessa linfa santa e santificante di Cristo; il corpo mistico le cui membra partecipano alla stessa vita santa del Capo che Cristo; la “Sposa amata” dal Signore Gesù che ha consegnato se stesso per santificarla» (Christifideles Laici 16).
Ma perché possa comunicare tale santità al singolo fedele, la Chiesa deve a sua volta essere percepita e vissuta come un organismo vivente che in tutti i suoi «punti vitali» (Scrittura, Tradizione, Sacramenti, Doni istituzionali e carismatici, reciprocità servizievole delle singole membra) chiede obbedienza alla Santa Umanità di Cristo, per poterci comunicare in tal modo la sua Grazia.
Tale incarnata obbedienza al Risorto e allo Spirito, nella Chiesa ha i suoi punti di massimo realismo nella recezione dei Sacramenti e nell’ascolto della Parola di Dio.
In particolare, nel Battesimo e nella Penitenza, il sacrificio del Corpo santo di Cristo viene direttamente applicato alla rigenerazione del singolo fedele e, nella Eucaristia, lo stesso corpo sacrificato di Gesù lo assimila nel suo mistero di morte e risurrezione, e lo nutre.
Un analogo «realismo» va riconosciuto e vissuto negli altri Sacramenti e nell’ascolto della Parola di Dio, la quale, del resto, proprio nei due grandi Sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia trova, essa stessa, la sua massima densità ed efficacia.
La Chiesa santa, chiedendo maternamente ai semplici fedeli l’obbedienza della fede, nella sequela di Cristo risorto, li rende in tal modo partecipi della Sua missione nei riguardi del mondo.
Il Cristo che è l’Inviato di Dio totalmente dedito alla sua missione ha fondato la sua Chiesa come sacramento di salvezza per tutto il genere umano, e l’ha inviata nel mondo intero come comunità destinata a svolgere, in ogni tempo e in ogni luogo, la sua stessa triplice funzione sacerdotale, profetica e regale (cfr. Lumen Gentium 34-36).
Il cammino del singolo fedele nella santità (la quale ripetiamolo consiste in un’appartenenza sempre più profonda e totale a Cristo e alla Chiesa) si sviluppa, pertanto, man mano che il senso del proprio «io» (Yautocoscienza) si va identificando col senso della propria missione (obbedienza).
Ne consegue che la santità cristiana non consiste nella coltivazione del proprio «io» (neppure nel senso ottimale dell’espressione), ma piuttosto nella crescente disponibilità alla missione che Dio intende affidare, fino alla «distribuzione eucaristica» del proprio essere, in «conformità» a Cristo (cfr. Rm 12, 2).
L’appartenenza a Cristo e alla Chiesa, e la disponibilità alla missione, non possono mai essere genericamente vissute, ma s’inverano e s’incarnano nella concreta comunità ecclesiale nella quale si è accolti e dalla quale si è «inviati». Pur nella sua fragile contingenza, la concreta comunità purché viva nella pienezza della communio ecclesiale — è quella che tocca più da vicino l’esistenza del fedele e quasi la abbraccia: essa rappresenta così il punto di massimo necessario realismo nel «contatto d’incarnazione» che deve avvenire tra Cristo e il suo discepolo.
Nemmeno l’esperienza del peccato va esclusa dal proprio «cammino di santità», anche se dev’essere sempre vigile la cura di debellare il male.
Peccato è la nostra «distrazione», momentanea o grave, dal «Fatto» di Gesù Cristo: la dimenticanza del suo dono e il tentativo di consistere su se stessi, di salvarsi da soli secondo propri criteri e misure; è il mettere la speranza nei propri progetti, e disprezzare l’amore con cui Dio «ci ha amati per primo».
Ma anche la triste esperienza del peccato può essere riassorbita positivamente quando si tramuta nell’umile verifica della parola di Cristo: «Senza di me, non potete far nulla» (Gv 15, 5), e quando ci si apre ad un rinnovato desiderio di «guardare Cristo» («conversione»).
Posto tra l’esperienza della propria fragilità e l’esperienza del perdono di Cristo, il fedele si santifica rinnovando ogni volta, indomabilmente, la fede nella vittoria del Signore Gesù anche sul proprio male e sulla propria morte.
«La Chiesa, con i singoli suoi membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (Gaudium et Spes 40).
Non bisogna tuttavia mai scordare che l’ideale della santità reso possibile da Cristo è appunto il modo specifico con cui la Chiesa offre a tutti gli uomini il suo proprio contributo.
Esso, infatti, null’altro è che l’ideale della vera umanità: l’adesione della creatura alfimmagine originale secondo cui essa è stata costituita e al Destino per il quale è stata creata (cfr. Ef 1, 5ss).
Solo nella santità trovano sbocco quei desideri profondi (di verità, di giustizia, di felicità, di bellezza ecc.) che costituiscono la stoffa stessa della natura umana. Santità dunque non è super-umanità, ma umanità pienamente realizzata, secondo il disegno di Dio Creatore e Salvatore.
Il dialogo e il confronto tra la Chiesa e il mondo in qualunque campo ciò accada è significativo e decisivo soprattutto quando riguarda «l’humanun dell’uomo»: appunto per questo, compito della Chiesa è offrire «lo spettacolo della santità»: per smascherare ogni altra rappresentazione di «riuscita umana» che s’accontenti di conquiste e risultati parziali e disarticolati («divismo»), e per tener opportunamente desti il desiderio e l’«inquietudine» del cuore d’ogni uomo.
Si deve notare bene, tuttavia, che «lo spettacolo della santità» che la Chiesa deve saper offrire al mondo non è in primo luogo quello di realizzazioni straordinarie, ma quello di «personalità unificate» dalla propria appartenenza al Signore Gesù: unificate nella percezione di sé, della storia e del mondo, perché ancorate ad un solo centro: «Cristo centro del cosmo e della storia» (Redemptor hominis 1).
Tali personalità unificate o «santificate» hanno come caratteristica la capacità costante di «vagliare tutto e trattenere il bene» (ITes 5, 21): senza censurare nessun aspetto della vicenda umana, e senza mai sottrarsi al lavoro richiesto da Dio.

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