Tutti i doni divini
che Giovanni della Croce enumera nelle Romanze sembrano essere orientati
allo scambio finale tra Dio e l’uomo; il giorno del fidanzamento
la sposa non si presenta a mani vuote al suo Sposo ma gliele porge
cariche di gioielli. I doni divini sono dunque per lo scambio tra Dio e
l’uomo. La sposa delle Romanze rievoca per opposizione la donna di
Samaria del Vangelo di Giovanni, l’unica a cui fu chiesto di donare
qualche cosa a Dio (quasi rispondendo senza saperlo, ma concretamente al
dono dell’Incarnazione). Ella tuttavia, ricordiamolo, non aveva
saputo dare da bere a Gesù ma, abbandonata la sua brocca a terra,
«convertitasi», era tornata al suo villaggio per annunciare la presenza
del Messia. La sposa delle Romanze invece si lascia prendere dal suo
Sposo che scende a cercarla: ella non lascia cadere a terra le sue
fatiche ma s’abbandona, lei stessa, nelle braccia del suo Sposo per
donargli una specie di «acqua viva», le sue lacrime, che «fin allora le
erano così estranee».
Giovanni della Croce
scrive due volte di questo scambio: nella quarta Romanza dove dice: «Che
Dio si farà uomo / e che l’uomo sarà Dio»[i];
e nella nona, come già detto: «E la Madre quello scambio / con stupore
contemplava: / l’uomo in cui la gioia splende, / Dio che lacrime
assapora: / sono cose che all’uno e all’altro / erano estranee fino
allora»[ii].
Nel primo caso il Figlio, che si è fatto in tutto simile
all’uomo, domanda di essere pienamente accolto nella sua casa (per
abitare, parlare, ascoltare, mangiare e bere insieme); nel secondo caso
assistiamo allo scambio di doni di fidanzamento tra lo Sposo e la sposa:
il Figlio riceve le lacrime dell’uomo che sono simbolo di tutta la
bassezza della natura umana, che proviene dalla sua composizione
di spirito e carne, e al contempo di tutte le sue conseguenze, a cui
Giovanni della Croce accenna scrivendo di un «duro servizio sotto il
giogo della legge che Mosé aveva donato»[iii].
Da parte sua la sposa riceve, della gioia promessa, l’allegria che
la Madre con stupore nel giorno del Natale scorge nell’uomo, un’allegria
che «gli era così estranea» e di cui sentiamo risuonare tutto il
palazzo[iv] della sposa pur non essendo ella ancora nella «camera nuziale».
L’amore è la causa di
questo scambio, amore la cui azione obbedisce ad una
legge «onnipotente», secondo quanto udiamo dire dal Padre al Figlio
nella settima Romanza.: «In tutti gli amori perfetti / questa legge è
necessaria, / che si faccia somigliante / l’amante a colei che ama»[v].
La ragione di questa legge dell’amore è la felicità, alla quale l’amore
tende; prosegue infatti così la spiegazione del Padre: «Perché quanto
più la somiglianza è grande / tanto più essa contiene gioia»".
Come si vedrà meglio
nel Cantico spirituale (CS) e nella Viva fiamma d’amore (VF), il
linguaggio che esprime questa potenza dell’amore, capace di divinizzare
la natura umana, supera di tanto il linguaggio ontologico, senza del
resto negarlo, quanto l’unione di amore, di cui Giovanni della Croce
parla, presuppone l’unione sostanziale. Nella Salita al monte Carmelo
(MC), il poeta lo afferma esplicitamente: «Per bene intendere, dunque,
quale sia l’unione di cui parliamo, bisogna sapere che Dio è presente e
dimora sostanzialmente in qualsiasi anima, anche in quella del
più grande peccatore di questo mondo. Tra Dio e tutte le cose create
esiste sempre questa maniera di unione: con questa Egli conserva loro
l’essere che hanno, di modo che per poco essa venisse a mancare, subito
le cose cesserebbero di esistere tornando al nulla. Quando perciò
parliamo di unione dell’anima con Dio, non intendiamo parlare
dell’unione sostanziale di Lui in tutte le creature, ma della
trasformazione e unione dell’anima con Dio, unione che non sempre
esiste, ma solo quando l’anima viene ad avere somiglianza d’amore; e
perciò questa si chiamerà unione di somiglianza, mentre le prima si
chiama unione essenziale o sostanziale. La prima è naturale; la seconda,
soprannaturale, e avviene quando la volontà divina e l’umana
sono pienamente conformi, non essendovi in una alcune cosa che ripugni
all’altra. Perciò se l’anima rimuoverà da sé totalmente ciò che è
contrario alla volontà divina, resterà trasformata in Dio per amore»[vi].
I doni, a partire dall’essere stesso, sono per lo scambio. Max Huot de
Longchamp commenta: «Gli esseri esistono per essere la moneta di un
incontro che li trasformi in scambio vitale, ecco che cosa esprime
l’immagine della incandescenza (che ritroveremo nella Viva fiamma
d’amore). Detto ciò, Giovanni della Croce non cesserà di scrivere di
questo scambio e della reciprocità di questo incontro: “L’amore produce
una tale somiglianza nella trasformazione di coloro che si amano che si
può dire che ognuno è l’altro e che entrambi sono uno. La ragione è che
nell’unione e trasformazione d’amore, l’uno dona il possesso di sé
al- l’altro; e così ognuno vive nell’altro, e l’uno è l’altro ed
entrambi sono uno per trasformazione d’amore” (CS 11,7)»[vii].
Riconosciamo all’opera
una doppia dinamica del dono: una soggettiva, l’altra oggettiva. La
prima, il fatto cioè che il donatore desideri tanto comunicarsi
personal- mente al destinatario da preferire essere il dono che fa, per
unirsi a lui, piuttosto che restare il donatore, separato dal
destinatario M, esige il compimento nello scambio dei doni,
che significa esattamente l’inserimento del destinatario nell’identica
logica del donatore. Alla sposa, che deve «meritare grazie al Figlio» di
«tenere compagnia» a Dio Trinità[viii],
Giovanni della Croce mostra la via che conduce all’unione ultima
de- scrivendo i dialoghi intratrinitari che sono all’origine di ogni
storia cosmica e umana.
La seconda dinamica
concerne gli oggetti del dono: non si può donare che ciò che si ha e non
si può desiderare di donare che molto di più di ciò che si è ricevuto.
I doni dello scambio
finale (le lacrime e l’allegria) rivelano allora primariamente ciò che i
due donatori hanno di meglio da offrire ed al contempo indicano il
punto di vista del poeta nelle Romanze. Giovanni della Croce scrive a
partire dalla vetta del monte Carmelo, là dove sapremo pienamente che
solo Dio può donare l’allegria agli uomini. Ma, essendo egli là, scrive
per invitare ogni uomo a raggiungerlo su questa santa montagna, come
ricorda Edith Stein: «Ciò che voleva, in fondo, era, come dice
l’Areopagita stesso, “condurre per la mano”, cioè completare attraverso i
suoi scritti la sua opera di direttore d’anime»[ix].
Per questo motivo nel giorno del suo fi- danzamento la sposa dà in dote
«le sue gioie» (l’acqua viva delle lacrime) che sono obiettivamente
preziose per l’obbedienza del Figlio, benché siano di scarso valore
ri- spetto alla ricchezza che è Dio Padre, origine senza origine. Di
essa scrive il poeta nella settima Romanza: «La mia volontà è la tua / -
gli rispondeva il Figlio - / [...] / Io andrò a cercare la mia sposa / e
prenderò su di me / le sue fatiche e le sue pene / per le quali ella
tanto soffriva»[x].
Da un lato dunque è lo Sposo che conferisce preventivamente valore ai
doni della sposa, dall’altro è nell’atto d’offerta di questi doni che
la sposa impara a donarsi allo Sposo. Così ella merita, grazie al
Figlio, la compagnia delle divine Tre Persone.
Si noterà facilmente
che il registro dominante delle Romanze è psicologico: esso si colloca
tra la simbolica della croce, alla quale è molto vicino, e quella della
notte, che non è completamente assente da queste poesie. In ciò sta
forse il carattere parti- colare della poesia delle Romanze. A questo
proposito, Edith Stein scrive nella Scienza della Croce: «Noi siamo
adesso nella condizione di riassumere brevemente la differenza che
separa il carattere simbolico della Croce e quello della notte. La
croce è il segno che ci rappresenta tutto ciò che è in relazione alla
Croce di Cristo, che si tratti di un rapporto di causa o di un rapporto
storico. La notte invece è l’indispensabile espressione cosmica del
mondo mistico quale lo considera Giovanni della Croce. La predominanza
del simbolo della notte è un indice del fatto che, negli scritti del
santo Dottore della Chiesa, non era il teologo ma il poeta che prendeva
la parola, anche quando il teologo sorvegliava coscienziosamente i
pensieri come anche la loro espressione»[xi].
Osserviamo infine che
questo scambio riassume in sé i due doni fondamentali del vangelo di
Giovanni: lo Sposo è il Figlio donato dal Padre e, grazie
all’unione amorosa con il suo Sposo, la sposa riceve «il potere di
diventare figlia di Dio». Se ci è permesso un gioco di parole tratto
dalla lingua francese, la sposa unita al Figlio diventa «la bella
figlia» del Padre.
[i]
Cfr. R4:l42s. Citiamo le romanze indicando il loro numero, preceduto
dalla lettera R, a cui segue il numero del verso, secondo la divisione
adottata, tra gli altri, da A. CAPOCACCIA Quadri, L’opera poetica di San
Giovanni della Croce, Ancora, Milano 1977.
[ii] Cfr. R9:309-314.
[iii] Cfr. R7:224-210.
[iv] Cfr. R9:301s.: «Gli uomini alzavano canti / e gli angeli melodia».
[v] Cfr. R7:239-342.
[vi] Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, L. II, 5,3.
[vii] M. HUOT de Longchamp, Lectures de Jean de la Croix, Beauchesne, Paris 1981, p. 109.
[viii] Cfr. R3:79-80.
[ix] E. STEIN, La scienza della Croce, Edizioni OCD, Roma 2002, p. 35.
[x] Cfr. R7:249-250.263-266.
[xi] E. STEIN, La scienza della Croce, cit., p. 41.
da | O.Carm
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