Antonio Maria Sicari, ocd.
Il cammino della
santità è stato reso possibile da un dono gratuito e indeducibile da
ogni nostra attesa: l’incontro con Cristo e la compagnia salvifica
che Egli ha fatto alla nostra vita.
Esso è dunque un cammino che si può sviluppare solo come affezione personale a Cristo e senso costante della sua Presenza.
Soltanto la certezza
di questa Presenza, il desiderio appassionato del suo Volto, la sequela
fiduciosa di Lui nonostante la propria debolezza e l’esperienza di
molteplici infedeltà possono realizzare la santità del discepolo.
In tale sequela, lo
sforzo morale e ascetico non è teso «ad afferrare Cristo», se non come
conseguenza della gioia «d’esser già stati afferrati da Lui» (Fil 3,
12). L’autocoscienza del santo, anche psicologicamente, è determinata
dalla pace e dall’abbandono generati dalla propria appartenenza al
Signore Gesù, secondo il detto di Paolo: «Vivo: non io, è Cristo che
vive in me» (Gal 2, 20).
Condizione essenziale
perché maturi una vera santità è, dunque, che il rapporto del fedele con
Cristo sia e rimanga un vero e reale incontro da persona a persona.
Che Cristo non divenga
mai una Parola disincarnata, né un’idea, né un valore, né una causa a
cui votarsi, ma che resti, in ogni istante e in ogni luogo della
vita, il Figlio di Dio «fatto uomo per noi e per la nostra salvezza» è
una questione capitale e decisiva.
A tale scopo è
necessario abituarsi a considerare il «corpo risorto di Cristo»
come corpo massimamente reale, e a considerare lo Spirito Santo come lo
Spirito dell’incarnazione che sempre «prende da Cristo» vero Dio e vero
uomo tutto ciò che annuncia (cfr. Gv 16, 14).
Il senso della
contemporaneità corporea di Cristo è uno degli elementi che si ritrova
costantemente nell’esperienza dei santi canonizzati di ogni tempo.
La percezione
realistica del corpo risorto di Cristo e dell’azione del suo Santo
Spirito viene garantita, nel tempo e nello spazio, dalla concretezza
della Santa Chiesa, alla quale siamo ugualmente chiamati ad appartenere.
Essa è «la vigna
scelta per mezzo della quale i tralci vivono e crescono con la stessa
linfa santa e santificante di Cristo; il corpo mistico le cui membra
partecipano alla stessa vita santa del Capo che Cristo; la “Sposa amata”
dal Signore Gesù che ha consegnato se stesso per santificarla»
(Christifideles Laici 16).
Ma perché possa
comunicare tale santità al singolo fedele, la Chiesa deve a sua volta
essere percepita e vissuta come un organismo vivente che in tutti i
suoi «punti vitali» (Scrittura, Tradizione, Sacramenti, Doni
istituzionali e carismatici, reciprocità servizievole delle singole
membra) chiede obbedienza alla Santa Umanità di Cristo, per poterci
comunicare in tal modo la sua Grazia.
Tale incarnata
obbedienza al Risorto e allo Spirito, nella Chiesa ha i suoi punti di
massimo realismo nella recezione dei Sacramenti e nell’ascolto della
Parola di Dio.
In particolare, nel
Battesimo e nella Penitenza, il sacrificio del Corpo santo di Cristo
viene direttamente applicato alla rigenerazione del singolo fedele e,
nella Eucaristia, lo stesso corpo sacrificato di Gesù lo assimila nel
suo mistero di morte e risurrezione, e lo nutre.
Un analogo «realismo»
va riconosciuto e vissuto negli altri Sacramenti e nell’ascolto della
Parola di Dio, la quale, del resto, proprio nei due grandi Sacramenti
del Battesimo e dell’Eucaristia trova, essa stessa, la sua massima
densità ed efficacia.
La Chiesa santa,
chiedendo maternamente ai semplici fedeli l’obbedienza della fede, nella
sequela di Cristo risorto, li rende in tal modo partecipi della
Sua missione nei riguardi del mondo.
Il Cristo che è
l’Inviato di Dio totalmente dedito alla sua missione ha fondato la sua
Chiesa come sacramento di salvezza per tutto il genere umano, e
l’ha inviata nel mondo intero come comunità destinata a svolgere, in
ogni tempo e in ogni luogo, la sua stessa triplice funzione sacerdotale,
profetica e regale (cfr. Lumen Gentium 34-36).
Il cammino del singolo
fedele nella santità (la quale ripetiamolo consiste in un’appartenenza
sempre più profonda e totale a Cristo e alla Chiesa) si
sviluppa, pertanto, man mano che il senso del proprio «io»
(Yautocoscienza) si va identificando col senso della propria missione
(obbedienza).
Ne consegue che la
santità cristiana non consiste nella coltivazione del proprio «io»
(neppure nel senso ottimale dell’espressione), ma piuttosto nella
crescente disponibilità alla missione che Dio intende affidare, fino
alla «distribuzione eucaristica» del proprio essere, in «conformità» a
Cristo (cfr. Rm 12, 2).
L’appartenenza a
Cristo e alla Chiesa, e la disponibilità alla missione, non possono mai
essere genericamente vissute, ma s’inverano e s’incarnano nella concreta
comunità ecclesiale nella quale si è accolti e dalla quale si è
«inviati». Pur nella sua fragile contingenza, la concreta comunità
purché viva nella pienezza della communio ecclesiale — è quella che
tocca più da vicino l’esistenza del fedele e quasi la abbraccia: essa
rappresenta così il punto di massimo necessario realismo nel «contatto
d’incarnazione» che deve avvenire tra Cristo e il suo discepolo.
Nemmeno l’esperienza
del peccato va esclusa dal proprio «cammino di santità», anche se
dev’essere sempre vigile la cura di debellare il male.
Peccato è la nostra
«distrazione», momentanea o grave, dal «Fatto» di Gesù Cristo: la
dimenticanza del suo dono e il tentativo di consistere su se stessi, di
salvarsi da soli secondo propri criteri e misure; è il mettere la
speranza nei propri progetti, e disprezzare l’amore con cui Dio «ci ha
amati per primo».
Ma anche la triste
esperienza del peccato può essere riassorbita positivamente quando si
tramuta nell’umile verifica della parola di Cristo: «Senza di me,
non potete far nulla» (Gv 15, 5), e quando ci si apre ad un rinnovato
desiderio di «guardare Cristo» («conversione»).
Posto tra l’esperienza
della propria fragilità e l’esperienza del perdono di Cristo, il fedele
si santifica rinnovando ogni volta, indomabilmente, la fede nella
vittoria del Signore Gesù anche sul proprio male e sulla propria morte.
«La Chiesa, con i
singoli suoi membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter
contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua
storia» (Gaudium et Spes 40).
Non bisogna tuttavia
mai scordare che l’ideale della santità reso possibile da Cristo è
appunto il modo specifico con cui la Chiesa offre a tutti gli uomini
il suo proprio contributo.
Esso, infatti,
null’altro è che l’ideale della vera umanità: l’adesione della
creatura alfimmagine originale secondo cui essa è stata costituita e al
Destino per il quale è stata creata (cfr. Ef 1, 5ss).
Solo nella santità
trovano sbocco quei desideri profondi (di verità, di giustizia,
di felicità, di bellezza ecc.) che costituiscono la stoffa stessa della
natura umana. Santità dunque non è super-umanità, ma umanità pienamente
realizzata, secondo il disegno di Dio Creatore e Salvatore.
Il dialogo e il
confronto tra la Chiesa e il mondo in qualunque campo ciò accada è
significativo e decisivo soprattutto quando riguarda
«l’humanun dell’uomo»: appunto per questo, compito della Chiesa è
offrire «lo spettacolo della santità»: per smascherare ogni altra
rappresentazione di «riuscita umana» che s’accontenti di conquiste e
risultati parziali e disarticolati («divismo»), e per tener
opportunamente desti il desiderio e l’«inquietudine» del cuore
d’ogni uomo.
Si deve notare bene,
tuttavia, che «lo spettacolo della santità» che la Chiesa deve saper
offrire al mondo non è in primo luogo quello di
realizzazioni straordinarie, ma quello di «personalità unificate» dalla
propria appartenenza al Signore Gesù: unificate nella percezione di sé,
della storia e del mondo, perché ancorate ad un solo centro: «Cristo
centro del cosmo e della storia» (Redemptor hominis 1).
Tali personalità
unificate o «santificate» hanno come caratteristica la capacità costante
di «vagliare tutto e trattenere il bene» (ITes 5, 21): senza censurare
nessun aspetto della vicenda umana, e senza mai sottrarsi al lavoro
richiesto da Dio.
Nessun commento:
Posta un commento