di Iacopo Iadarola
3° tappa: Monte Carmelo-Nazareth
Piana di Esdrelon
Lasciamo il convento di el-Muhraqa alle
prime luci dell’alba, per non dover poi camminare troppo tempo sotto il
sole. Si preannuncia infatti una giornata stupenda, adombrata soltanto
dalla malinconia di stare lasciando il nostro Monte Carmelo. Ne
scendiamo le pendici velocemente, verso la sottostante piana di Esdrelon
(o di Izreèl) che attraverseremo alla volta di Nazareth. E’ stridente
notare il contrasto, lungo il tratturo per cui discendiamo, fra un
contadino druso con le sue vacche, e alcuni israeliani che sfrecciano su
moto da cross.
Arrivati ai piedi del Carmelo ci aspetta
il Kison, il celebre torrente presso il quale Elia uccise i profeti di
Baal (1Re 18,40: c’è una collina che ancora ricorda, nel nome,
l’episodio), e che, “torrente impetuoso”, travolse le truppe di Sisara
(Gdc 5,21). E benché sia un fiumiciattolo, anche per noi il Kison non si
mostra amichevole: per le piogge dei giorni precedenti si è gonfiato
alquanto e P. Paco non riesce a trovare un posto dove guadare. Dopo
varie esplorazioni conveniamo che l’unica soluzione sta nel prendere un
cavalcavia in costruzione a un paio di chilometri di distanza e passare
in questo modo all’altra sponda. Allunghiamo un po’ ma non abbiamo
alternative.
Giunti dall’altra parte, ci ritroviamo
su un enorme rettilineo in costruzione che taglia in due la piana di
Esdrelon, e che ospiterà una ferrovia ad alta velocità: anche se poco
bucolica, per noi è una pista facile verso la nostra mèta. Ai lati di
questa striscia asfaltata, possiamo vedere un reticolo di tubi che si
dirama per tutta la pianura: come mi dice F. Fabio, che ha studiato
agraria, è un chiaro esempio dell’alta tecnologia agricola israeliana,
che tramite la microirrigazione riduce al minimo gli sprechi d’acqua e
riesce a rendere ancora più fertile questa piana. Camminiamo per una
decina di chilometri, poi facciamo tappa per un piccolissimo villaggio,
Kefar Yehoshua (“il villaggio di Giosuè”) dove sotto ombrosi eucalipti
crocchi di israeliani si svagano e fanno picnic. Molti di loro vanno e
vengono con le moto da cross viste prima o con altri veicoli da diporto,
spensieratamente: è Shabbat!
Ripartiamo per la seconda metà della nostra marcia, passando accanto a una vecchia stazione dell’Orient Express
(che passava di qui) e a stalle di allevamenti di bovini, dove noto
all’interno degli enormi ventilatori in funzione, probabilmente per
render tollerabile alle vacche l’eccessiva calura. A un certo punto P.
Paco ci fa lasciare la strada asfaltata e ci dirige in mezzo ai campi:
la situazione si fà più avventurosa, e il sole comincia a picchiare
sulle nostre teste. Piccolo assaggio delle fatiche, non indifferenti,
che Gesù e i suoi dovettero affrontare per predicare da un angolo
all’altro della Palestina, come, ad esempio, in Samaria: “Gesù dunque,
affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa
mezzogiorno” (Gv 4,6). Bellissimo il senso spirituale di questo passo (“Christus lassus, Christus passus”
scriveva Agostino), ma è bello coglierne anche il senso
letterale…Comunque, ancor più bello è vedere come per una piccola fatica
siamo subito ripagati con un piacevole dono che questa terra santa ci
fa: il nostro sentiero comincia a immettersi tra immensi agrumeti di
mandarini e pompelmi, dove la raccolta è stata già effettuata ma senza
esaurire completamente i frutti degli alberi..che sono lì ad aspettarci
invitanti e non ci pensiamo due volte! Il loro sapore è delizioso, e
soprattutto dissetante. E non ci lasciamo scappare, oltre ai pompelmi,
anche uno splendido cespo di verza, rimasto solo soletto nel suo campo, e
che più tardi diventerà la nostra cena. Così ristorati ripartiamo per
l’ultimo tratto di strada, fino al limitare di Nazareth, il cui centro
raggiungiamo con una breve tratta in autobus.
Nazareth
A
differenza di Haifa Nazareth è molto più palestineggiante. Un po’ più
disordinata, ma non troppo, e piena di minareti che all’orario convenuto
intonano dai loro altoparlanti preghiere in playback.
Il bello è che queste si alternano, nel giro di mezz’ora, al suono
delle campane delle nostre chiese, e a scoppi e spari di altri rumori
festaioli: di matrimoni probabilmente, mi dice p. Paco. Qui soggiorniamo
per due giorni, a 5 minuti a piedi dalla Basilica dell’Annunciazione,
presso la casa dei piccoli fratelli di Charles De Foucauld: non avremmo
potuto trovare sistemazione migliore e luogo più raccolto. E’ un
ex-monastero di monache clarisse, con un ampio giardino interno (che
imbarbariamo un po’ riempiendolo dei nostri vestiti appesi ad asciugare
da ogni parte), lo stanzone dove dormiamo stipati per terra (l’ex-coro
delle monache), e una deliziosa cappella, usata dai piccoli fratelli, di
una semplicità e decoro toccanti. C’è anche una piccola reliquia del
braccio di Charles. Tutto traspira modestia e umiltà, riflesso del clima
di profonda pace che dovette rubare il cuore di Charles, qui venuto
come pellegrino e poi rimasto per tre anni, come semplice inserviente
delle monache. Dormiva in un ripostiglio degli attrezzi nel giardino,
faceva qualche lavoretto per il monastero, pregava nella vicina Basilica
dell’Annunciazione. Tutto nel nascondimento più totale, proprio come
dovettero fare Maria e Gesù per la maggior parte della loro vita. P.
Paolo, uno dei piccoli fratelli (sono tre in comunità), mi fa vedere la
scrivania dove Charles scrisse molti dei suoi scritti spirituali e la
maggior parte delle sue lettere. E proprio da queste ultime rubo, frutto
ben più prezioso dei pompelmi, le parole che scrisse per raccontare il
luogo qui vicino, dove Maria disse quel sì che ha cambiato la nostra
vita, per sempre: “All’Angelus vado al convento francescano, là scendo
nella grotta che faceva parte della Santa Famiglia (questa casa era
addossata alla roccia e formata in parte da una piccola costruzione
esterna; la costruzione esterna è a Loreto: la parte scavata nel macigno
è qui)…Resto lì fino verso le sei del mattino dicendo il mio rosario e
ascoltando le Messe che vengono dette in questo luogo sì adorabilmente
Santo in cui Dio s’incarnò, in cui risuonò per trent’anni la voce di
Gesù, di Maria, di Giuseppe; è profondamente dolce guardare queste
pareti di pietra sulle quali si sono posati gli occhi di Gesù e ch’Egli
toccava con le sue mani”.
La Basilica è retta dai francescani
della Custodia della Terra Santa, che è una provincia dei Frati minori
che si estende non solo in Israele e Palestina, ma anche Egitto,
Giordania e altri luoghi del Medio Oriente: ritroveremo il loro stemma,
con la quintuplice croce di Gerusalemme, pressoché in ogni luogo
cristiano che visiteremo. Il luogo è sicuramente quello
dell’’Annunciazione: la genuinità della tradizione che la colloca qui è
attestata da un’iscrizione del I-II secolo d.C. recante il saluto
angelico. La struttura racchiude, a mo’ di calice di fiore, la
grotticina su descritta, dove file interminabili di pellegrini e turisti
possono sostare per qualche attimo. Lo facciamo anche noi e, anche se è
difficile raccogliersi in preghiera in un contesto pieno di flash e
chiacchierii, recitiamo l’Angelus. Con il timore reverenziale di poter
aggiungere “hic” al momento di pronunciare le parole “Et verbum caro
factum est”. Ma senza attaccarcisi troppo però: la nostra beata
Elisabetta della Trinità ci ricorda che grazie a Dio l’incarnazione
continua, anche se certo in maniera diversa, nei tanti “hic”delle nostre
vocazioni, nelle tante Nazareth delle nostre vite disordinate. Ed è
proprio in virtù di ciò che i nostri padri carmelitani ebbero una
particolare predilezione per il mistero dell’Annunciazione, se è vero
che le dedicarono le più antiche chiese dell’Ordine, guardando a Maria,
dolcissima madre e sorella, come modello esemplare di purificazione del
cuore, in vista della domiciliazione di Dio in noi.
Per gli ortodossi invece (ma è una
tradizione tardiva) l’Annunciazione non sarebbe avvenuta qui nella
grotta ma presso una fontana, dove la Vergine sarebbe stata solita
recarsi, e dove han costruito una chiesa frequentatissima dai pellegrini
ortodossi, fra i quali i russi predominano nettamente. Michele,
confratello postulante, ci fa notare che sui portoni della chiesa
ortodossa sono appesi gli stessi annunci dei defunti che aveva visto
nella parrocchia dell’Annunciazione: forse è un bell’esempio della
pacifica convivenza che c’è, almeno qui, fra le varie confessioni
religiose. Altro importante sito che abbiamo conosciuto, a due passi
dalla Basilica, è la chiesa di S. Giuseppe, secondo la tradizione
edificata sui resti della sua casa e della bottega dove Gesù imparò il
suo mestiere. Come non ricordare questo passo della Gaudium et Spes?
“Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni
uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con intelligenza d'uomo,
ha agito con volontà d'uomo ha amato con cuore d'uomo” (n°22). Non è
casuale che, subito dopo l’incarnazione, venga il lavoro: qui lo vediamo
topograficamente.
Il secondo giorno passato a Nazareth è
dedicato alle nostre monache, che ci aspettano nel loro imponente
Carmelo, dedicato alla Santa Famiglia, il quale fu costruito ai primi
del ‘900 su diretto suggerimento di Gesù a Mariam Baouardy: la piccola
grande araba, fattasi carmelitana scalza, che sarà canonizzata fra pochi
giorni, il 17 maggio (riparleremo di lei quando giungeremo Betlemme, il
suo monastero!). Le monache ci raccontano fiere di quest’origine,
attestata anche dal titolo della via in cui è ubicato il Monastero,
svettante su Nazareth, che reca il nome della santa. Anche qui troviamo
donne giunte dai quattro angoli del pianeta: Cile, Filippine, Quebec,
Hong Kong, Madagascar, Colombia, Korea, Francia, Perù…ma quel che
colpisce è che, se per i frati carmelitani c’è un coordinamento centrale
degli spostamenti, tramite la Curia Generale, per le monache non c’è
nulla di tutto questo, ma ognuna è giunta in Terra Santa per una propria
personalissima storia vocazionale: la monaca di Hong Kong, per esempio,
in seguito a un pellegrinaggio della sua parrocchia a Nazareth ha
capito che doveva fermarsi qui. Proprio come successe a Charles De
Foucauld. Non sarà fuori luogo, allora, ricordare ancora le sue parole,
che mi sembrano l’eco più bella e struggente di quanto è successo in
questa città a una sconosciuta ragazza di 2000 anni fa: “Padre mio, io
mi abbandono a Te, fa' di me ciò che ti piace. Qualunque cosa tu faccia
di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la tua
volontà si compia in me e in tutte le tue creature. Non desidero niente
altro, Dio mio; rimetto l'anima mia nelle tue mani te la dono, Dio mio,
con tutto l'amore del mio cuore, perché ti amo. Ed è per me un'esigenza
d'amore il darmi, il rimettermi nelle tue mani, senza misura, con una
confidenza infinita, poiché Tu sei il Padre mio”.
da | carmeloveneto.it
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